Perdita di potere negoziale del lavoro

“Credo – scrive Anthony Atkinson (Inequality. What can be done? 2015, Harvard University Press– che l’aumento delle disuguaglianze possa in molti casi essere ricondotto direttamente o indirettamente a cambiamenti nella bilancia dei poteri”. Atkinson intende soprattutto la bilancia dei poteri fra gli interessi del lavoro e gli altri interessi, degli imprenditori e della finanza, e infatti molteplici sue proposte sono poi volte a riequilibrare tale bilancia dei poteri. Atkinson è convinto che non esista un solo “equilibrio di mercato” efficiente ma molte possibili soluzioni, caratterizzate da combinazioni diverse di salari, profitti, tecnologie e produttività e che, anche in una logica di mercato, vi sia ampio spazio perché gli interessi diversi di chi è proprietario del capitale e chi del proprio lavoro si accordino per una soluzione che dipenderà dal potere contrattuale relativo.

 

La forte perdita di potere del lavoro avvenuta negli ultimi trenta anni, per lo straordinario aumento dell’offerta di lavoro mondiale, per le difficoltà dei sindacati di tutelare e organizzare un lavoro sempre più frammentato e spesso disperso fra diversi paesi, per le politiche adottate (in primis, l’abbandono dell’obiettivo pubblico della piena occupazione), ha dunque alterato a sfavore del lavoro le “soluzioni” contrattabili. Specie in alcune aree geografiche e in alcuni settori del mercato del lavoro sono cresciute o addirittura diffuse situazioni quali: retribuzioni sotto la soglia di povertà, condizioni di lavoro insicure e a forte rischio di danni alla salute, assenza di tutele sindacali, orario giornaliero ben oltre le otto ore. In questi contesti, specie nel Sud, il lavoro appare più come una sorta di “dono” piuttosto che un diritto costituzionalmente riconosciuto. A livello macroeconomico, questi e altri fenomeni hanno ridotto drasticamente la quota di reddito da lavoro sul prodotto totale.

 

Il cambiamento della bilancia di potere si riflette anche sul terreno della governance delle imprese. Ha prevalso un modello basato sul “valore per gli azionisti” rispetto ad altri modelli, pur rimasti sulla scena come alternativa  possibile, che attribuiscono all’impresa il compito di creare e distribuire valore per tutti gli stakeholder  (sia in quanto partecipano alla produzione congiunta di valore sia in quanto ricevono gli effetti esterni dell’attività delle imprese): questi altri modelli assegnano alle imprese doveri fiduciari e di “render conto” anche nei confronti di portatori di interessi e diritti ulteriori rispetto ai proprietari di quote del capitale.

 

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