Cambiamento del “senso comune”

Nel produrre l’aumento delle disuguaglianze dell’ultimo trentennio, l’inversione a U delle politiche pubbliche e la perdita di potere negoziale del lavoro sono stati rafforzati da un profondo cambiamento del “senso comune”, che quei due fenomeni hanno a loro volta consolidato. Ci si riferisce al termine “senso comune” nell’accezione utilizzata da Antonio Gramsci di “concezione della vita e dell’uomo più diffusa” che si modifica nel tempo (Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, 1924, Quaderno 24), ovvero di ciò che la società nel suo complesso tende a ritenere normale o appropriato, che a sua volta dipende dal modo in cui la realtà viene rappresentata. Nei termini delle moderne scienze cognitive, si tratta dei modelli mentali e dei “frame” che sono residenti nella mente delle persone e attraverso i quali vengono visti (o trascurati) i diversi aspetti della realtà (si vedano i lavori di Philip Johnson-Laird, Daniel Kahneman e Amos Tverski e specialmente, per i “frame” politici, del neuro linguista di Berkeley George Lakoff).

 

Il senso comune che rileva in tema di disuguaglianze riguarda molteplici aspetti della concezione di vita. Ad esempio: quale sia il divario normale fra retribuzione minima e massima di una stessa impresa; quale sia la remunerazione appropriata di un calciatore; la reazione primaria di fronte a un povero; cosa segnali il merito di una persona. Su questi e molti altri temi, in larga misura privi di un fondamento quantitativo o oggettivo, il senso comune è radicalmente cambiato fra gli anni ’70 e oggi nel senso favorevole alla tolleranza se non all’apprezzamento delle disuguaglianze.

 

Nell’Italia degli anni ’60 la regola d’oro di Olivetti era di un divario retributivo massimo pari a un fattore 10; oggi consideriamo normale che sia pari a 100 e che possa arrivare a 1000. Nella Gran Bretagna del 1961, ci ricorda Atkinson, era considerato normale che un calciatore avesse una retribuzione massima pari a quella media del paese; oggi è normale pensare che sia pari a 100 volte o più quella media nazionale. Trenta anni fa, la reazione primaria davanti a una persona in povertà era di pensare alle circostanze che l’avevano portata a quella condizione; oggi è di pensare che la sua povertà sia dovuto ad un inadeguato impegno nella vita. Le stesse misure di contrasto alla povertà, soprattutto quando si strutturano su erogazioni economiche di sostegno al reddito, rischiano a volte di riflettere tale visione o di produrla: guardando alle sole “mancanze monetarie” delle persone e non alle loro risorse complessive, non promuovono capacitazione, rischiando di cronicizzare dipendenza dalle situazioni di aiuto; introducendo talvolta divieti e sanzioni con il fine dichiarato di disincentivare usi impropri dei trasferimenti, e pubblicizzandoli accrescono la stigmatizzazione sociale delle persone aiutate.

 

E poi c’è la profonda trasformazione di senso comune che riguarda il merito. Nel trentennio post-bellico, il senso comune, legato sia alla forza dei movimenti sociali e sindacali sia a un forte apprezzamento della concorrenza, era che il merito di una persona, per intelligenza, virtù morali o impegno, potesse essere apprezzato solo dando a ogni persona la possibilità di esprimersi e cimentarsi nel modo più indipendente possibile dal proprio status economico, professionale o sociale: dando a ognuno la possibilità di realizzare la propria “meritevolezza” e di vedersela riconosciuta.E quindi, in particolare,si tendeva a non riconoscere automaticamente a un imprenditore, al possessore di ricchezza, il “merito” di esserne proprietario e/o controllante: essi venivano piuttosto incalzati per “dimostrare” di meritarsi il loro ruolo. Questa cultura tendeva a favorire riallocazioni di controllo, imposte di successione e patrimoniali significative e una rigorosa regolamentazione della concorrenza dei mercati. Politiche viste come “strumenti liberali” di funzionamento del capitalismo. E provocava anche un continuo riequilibrio della tendenza alla concentrazione della ricchezza. Nel capitalismo USA si dava molta importanza ai “doveri fiduciari” che i soggetti che controllano le imprese assumono verso chi ha loro messo a disposizione i fondi (l’azionariato diffuso) o addirittura verso i lavoratori che nell’impresa hanno investito il proprio sapere e saper fare.

 

Da oltre trenta anni è diventato egemone un modo di pensare opposto. Il senso comune oggi prevalente tende ad assumere che lo status economico, professionale e sociale sia l’esito, il segno, del merito di una persona, per intelligenza, virtù morali o impegno: si inferisce il merito dal risultato. Questa è spesso l’assunzione che si cela dietro l’espressione elusiva “meritocrazia”. In particolare, si riconosce il merito di possedere o controllare il capitale a chi già lo possiede o controlla. Si proclama il merito ma in realtà se ne trascura la verifica: se il merito di una data accumulazione di ricchezza sia anche o per intero di altri o addirittura se essa sia stata accumulata a danno di altri; ovvero se chi controlla la ricchezza, magari per eredità, abbia davvero la capacità capitalistica di farlo o comunque se una diversa allocazione sarebbe superiore per l’interesse generale. La forte concentrazione della ricchezza viene considerata normale e non ne viene messa in discussione l’utilità sociale: i ricchi sono invidiati, nella speranza di potere diventare come “loro” e fare come “loro”. Questa “cultura patrimonialista” (seguendo qui l’espressione e il ragionamento di Piketty) accelera il processo di concentrazione della ricchezza, anche attraverso il peso non più contrastato che i possessori di ricchezza hanno sulle pubbliche decisioni. L’inversione a U delle politiche pubbliche indotta anche da questo cambiamento del senso comune finisce così per convalidarne ex-post i convincimenti.

 

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