Intervista a Leonardo Becchetti*
La disuguaglianza nell’epoca della globalizzazione si combatte con la specializzazione, puntando sul vantaggio competitivo che per l’Italia significa una forte valorizzazione del patrimonio artistico e culturale.
Professore, come è cambiato il profilo della disuguaglianza nel mondo nell’era della globalizzazione?
Siamo in un periodo di convergenza condizionata, la teoria della crescita ci dice che i paesi più poveri crescono di più dei paesi ricchi e questo sta succedendo da parecchio tempo. Le distanze di reddito pro-capite medio tra paesi si stanno riducendo però sta aumentando moltissimo la disuguaglianza intra-paese. Oggi la vera linea di confine è tra gli altamente qualificati e i poco qualificati perché nella globalizzazione, che ha reso il mercato del lavoro da locale a globale, i lavoratori ad alto reddito competono con lavoratori con la stessa qualifica dei paesi a basso reddito. Si crea una sorta di esercito di riserva, e le aziende cercano di ottimizzare i costi andando a trovare il lavoro dove costa meno per essere più competitive. Quindi mentre i lavoratori qualificati aumentano i propri salari perché l’economia globale cresce, i lavori meno specializzati riducono sempre di più il loro potere contrattuale perché sono risucchiati nella corsa verso il basso nella concorrenza con i lavoratori meno specializzati dei paesi poveri. La disuguaglianza cresce sul confine delle competenze tra gli altamente qualificati e i poco qualificati, e crea anche quel rischio di insostenibilità politica della globalizzazione per i paesi ad alto reddito dove i ceti medio-bassi sono quelli che non vedono migliorare le proprie condizioni economiche anzi le vedono arretrare. Non a caso l’ostilità verso i migranti è soprattutto nei lavoratori poco specializzati e ha una sua parziale razionalità, perché gli studi empirici dimostrano che le migrazioni fanno bene a tutti tranne che alla quota dei lavoratori meno qualificati.
Un articolo di alcuni giorni fa sul The Guardian ci dice che la metà dei morti per inquinamento (6 milioni l’anno) sono in Cina e in India. Le Nazioni dove pure sono emersi nuovi ceti medi pagano un prezzo altissimo in termini ambientali e di qualità della vita sopratutto nei contesti urbani. Quali prospettive vede per le disuguaglianze interne a quei paesi?
Questi paesi sono stati vittime nel passato della corsa al ribasso anche sulle tutele ambientali perché si andava a produrre nei paesi dove non solo il lavoro costava meno ma anche dove c’erano meno regole sulla sostenibilità. Questo però ha portato a una rivolta dei cittadini e per esempio in Cina oggi il tema ambientale è uno dei più importanti e quindi vedo qui uno spazio per una reazione. Per quanto riguarda la disuguaglianza nel lavoro, i tempi sono ancora molto lenti semplicemente perché l’esercito a bassissimo costo è enorme e ci sono moltissime persone che possono ancora lasciare le campagne per andare a lavorare nelle città a salari bassi. Quindi nonostante il progresso dei ceti medi, resta una grossa sacca di lavoratori molto poveri, che però gradatamente migliorano le loro condizioni.
In questi giorni si discute dei dazi che Trump ha imposto alla Cina per tutelare l’economia americana. Esiste un’alternativa per l’Unione Europea che comunque garantisca dalla competizione sleale di merci prodotte con violazioni dei diritti fondamentali del lavoro o dei diritti umani?
La risposta per me è a tre livelli. Primo livello: bisogna risalire la scala delle competenze. In questa specializzazione del lavoro che c’è oggi a livello globale, noi dobbiamo cercare di andare verso la fascia alta delle competenze, perché in quel modo non abbiamo bisogno di bassa manovalanza, ma possiamo sfruttare la nostra capacità di fare le cose. Non a caso le imprese che sono rimaste in Italia sono quelle con più valore tecnologico e che puntano su un vantaggio non delocalizzabile. Seconda cosa, dobbiamo creare rete di protezione universale e abilitante per chi è escluso da questi processi, quindi il tema del rafforzamento del reddito di inclusione è molto importante perché riduce le disuguaglianze di partenza e rende le persone più occupabili. La terza cosa è cambiare le regole del commercio. L’approccio di Trump è sbagliato perché la mette sul piano nazionale e la trasforma in una guerra tra un paese e un altro. Il tema è creare dei sistemi che io chiamo green social consumption tax, imposte sui consumi verdi o sociali: ogni accordo commerciale deve contenere un tavolo sul lavoro, fissando degli standard minimi, diversi paese per paese, e se i prodotti vanno sotto quegli standard devono pagare un’imposta sui consumi maggiorata. Non un dazio ma un sovraccosto che si applica contro il dumping sociale in qualsiasi paese si realizzi, quindi dovrebbe valere anche per i prodotti italiani che abbiano dentro di sé uno sfruttamento del lavoro.
La crescita continua ad apparire necessaria per sostenere l’occupazione e l’avanzamento sociale della popolazione, ma la sostenibilità di quella crescita appare ormai irrinunciabile. “Bisogna creare valore economico più sostenibile”, ha scritto lei in un editoriale su Avvenire riprendendo la teoria della ciambella di Kate Raworth. Da economista ci spiega come possono i governi degli stati coniugare le due cose?
I governi devono favorire la dematerializzazione dell’economia. Non è detto che creare valore economico coincida con il distruggere risorse. Un conto è un’economia fatta al 100% di beni rivali che inquinano molto, e un conto è un’economia fatta di prodotti culturali. Penso al turismo di esperienza e a tutti i beni artistici e culturali che hanno questa caratteristica della non rivalità, che possono essere fruiti da numeri crescenti di persone senza essere prodotti dal punto di vista fisico. E bisogna usare come indirizzo per portare l’economia in quella direzione, sia il voto con il portafoglio degli stati, ovvero il tema dei criteri minimi ambientali negli appalti, sia le regole commerciali di cui abbiamo parlato, sia il voto con il portafoglio dei cittadini, dotando le persone di strumenti informativi.
Su questo punto le chiedo, partendo dalla ricerca “Dopo il voto: clima sociale e fiducia dei consumatori” (realizzata da Demopolis per IBC Associazione industrie beni di consumo) che rileva che il 67% delle scelte dei consumatori è orientato da promozioni e costi delle merci, come si possono spingere le persone a effettuare acquisti che tengano conto dell’impatto sociale della loro produzione e distribuzione?
E’ molto difficile, perché tendiamo a scindere gli effetti immediati su di noi come consumatori dagli effetti mediati su di noi come lavoratori, non ci rendiamo conto e che ogni nostra scelta fa vincere o perdere un modello di società, di lavoro e di ambiente. Gli ostacoli al voto con il portafoglio sono quattro: la consapevolezza che il potere che abbiamo, l’informazione sulle caratteristiche etiche dei prodotti, il coordinamento delle scelte, e la differenza di prezzo tra un prodotto sostenibile o non sostenibile. Questo ci spiega perché oggi il settore dove veramente il voto con il portafoglio ha fatto dei progressi enormi è quello dei fondi di investimento, che sempre di più votano con il portafoglio e chiedono alle aziende determinati standard ambientali e sociali, anche perchè ritengono che essere sotto a questi standard vuol dire esporsi a rischio. Perché i fondi hanno fatto prima? Perché chiaramente risolvono in partenza il problema della consapevolezza e delle informazioni e anche del coordinamento. Pensiamo al Montreal Pledge, un accordo di 10 trilioni di dollari di fondi, attraverso cui si è deciso di misurare l’impronta di carbonio dei loro portafogli di titoli. E’ molto più facile, in un certo senso, fare un’operazione come questa che convincere trenta consumatori a fare un certo tipo di acquisto in un negozio. Per aiutare il voto con il portafoglio però noi possiamo creare strumenti informativi. Il progetto “Eye on Buy” lanciato da Next Economia, prevede, attraverso la costruzione di un algoritmo, di un trip advisor sull’ambiente e sul lavoro. E’ tutto pronto ma la sfida che manca da vincere è rendere lo strumento virale.
Rispetto alla dematerializzazione dell’economia che menzionava prima, quali sono le carte che l’Italia si può giocare rispetto agli altri paesi?
L’Italia ha un vantaggio di partenza enorme, perchè se il petrolio del futuro sono le risorse dell’economia immateriale, le bellezze artistiche e la cultura, l’Italia è la leader mondiale. Il punto è riuscire a valorizzare queste risorse, a trasformarle in esperienze e costruire attorno alla tradizione dei prodotti unici. Su questo abbiamo un vantaggio comparato, abbiamo un genius loci.
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