Un articolo di Andrea Morniroli. (Questo articolo è stato pubblicato sull’edizione di Napoli di Repubblica martedì 17 marzo 2020)
Venerdì scorso, nella sede della cooperativa Dedalus, abbiamo organizzato una riunione, mantenendo tutte le norme di sicurezza, con le equipe che continuano a lavorare nei servizi che non si possono chiudere. E’ stato un momento di confronto denso e emotivamente faticoso con le operatrici e gli operatori, con le mediatrici e i mediatori culturali che in questi giorni continuano a lavorare al fianco delle persone che vivono condizioni di fragilità e difficoltà. Nelle case di accoglienza per le donne vittime di tratta e di violenza di genere; nelle strutture protette e di autonomia per minori stranieri non accompagnati; nei servizi di strada per stare accanto ai più marginali che non hanno informazioni, che sono spariti dal radar della nostra attenzione, che non possono stare a casa perché non hanno casa; nelle docce e nelle mense a bassa soglia per persone con problemi di dipendenza da sostanze e senza fissa dimora.
Nel confronto con loro, ancora una volta, mi sono reso conto di quale risorsa straordinaria siano per il Paese quelle donne, uomini e persone transessuali che con le loro organizzazioni del privato sociale e del civismo attivo anche in questi giorni lavorano a fianco di chi fa più fatica. Sapendo affiancare alla tradizione del proprio intervento, nuove modalità e nuovi strumenti adeguati all’emergenza che stiamo vivendo. Inventando nuove pratiche e operatività, mettendo in gioco le loro competenze, talenti e sensibilità. Tra l’altro, oggi, nella complicata e delicata ricerca di un equilibrio tra tutela dei diritti dei destinatari dei servizi e tutela del loro diritto alla salute.
Ma insieme a questa consapevolezza, nel dialogo con loro è emerso anche come ci faccia stare male il fatto che nelle parole dei media, della politica, del dibattito pubblico questo “tesoro competente e solidale” non sia quasi mai visto o percepito come tale. Un tesoro non raccontato, come invece e in modo sacrosanto si fa con il lavoro di medici e infermieri, e nemmeno tutelato, come giustamente si è fatto con il lavoro degli operai e delle operaie delle fabbriche che rimangono aperte. Non viene raccontato e tutelato perché in fondo in fondo quel lavoro e quelle professionalità non vengono riconosciute, perché in alcuni casi sono scambiate per un aiuto che non si configura come lavoro ma come volontariato (volontariato che pure, soprattutto oggi, riveste un ruolo fondamentale e centrale), mentre in altri casi (i peggiori) considerato come prestazione di manodopera a basso costo per un lavoro meramente assistenziale e di contenimento. E come se non bastasse, oggi troppe volte vissuto anche con diffidenza perché lavoro svolto a fianco di chi è considerato nemico, pericoloso, portatore di paura.
Un insieme di svalutazioni che per altro rischiano che nei nuovi provvedimenti il nostro lavoro non venga nemmeno tenuto in considerazione, nel caso che la crisi metta difficoltà le nostre imprese e associazioni che pure danno lavoro a migliaia di persone.
Ecco, come operatrici e operatori tutti i giorni e anche oggi impegnati nei servizi sociali e socio-sanitari chiediamo a tutte e tutti, e in primis alla politica e alle istituzioni di ribaltare lo sguardo sul nostro lavoro, provando a pensarci non come quelli che “fanno del bene”, ma come persone che, intrecciando competenze, professionalità e emozioni, provano a tutelare e promuovere diritti. Diritti che non riguardano solo i soggetti più fragili ma il cui pieno riconoscimento è condizione imprescindibile, come per altro afferma la nostra Costituzione, per rimuovere le disuguaglianze, per garantire a primi e ultimi benessere e sicurezza, per costruire società più giuste.
Perché come afferma Ascanio Celestini, in un bellissimo testo che sta girando sui social in questi giorni, questo virus ci ha insegnato che le sofferenze e le tragedie non sono un altrove da cui siamo immuni o fenomeni che sempre riusciamo a tenere lontani, a non vedere a scaricare su altri, poveri e senza voce.
Siamo convinti e convinte che l’unico modo per tutelarsi e per reagire alla paura e uscire dall’emergenza e dalla crisi sia quello di costruire comunità ospitali e capaci di rimettere al centro la persona e i suoi diritti. E che tali comunità per affermarsi abbiano bisogno di una costante cura e manutenzione e che in questo il lavoro sociale sia fondamentale e insostituibile.
Grazie a tutte e tutti voi per la preziosa attenzione.
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