Il cambiamento del senso comune è da intendersi come sospensione della realtà. Ogni nostra azione non risponde più ad eventi reali, ma a fatti che accadono nella nostra “percezione”, intesa come prima impressione di fronte ad un fenomeno. Eppure ci sono luoghi dove si continua a essere comunità, e dove resistono la consapevolezza, il coraggio e la solidarietà.
Intervista a Gabriele Vacis*
Se le dico “disuguaglianza” quali sono le prime tre immagini che le vengono in mente?
Quella di una pubblicità recente: un ragazzo del sud Italia deve partire per lavoro. La madre cerca di mettergli in valigia dei caciocavallo, ma lui glieli fa togliere, allora il padre sostituisce il formaggio con una carta di credito. Lo spot finisce col ragazzo che parte e la voce fuori campo che dice: a tutti i nostri ragazzi che vanno lontano Conad augura buon Natale. La seconda immagine sono i politici d’opposizione che urlano: – gli italiani sono alla fame! – Gli stessi che quando sono al governo va tutto bene. E la regola vale sia per quelli di prima che per quelli di adesso e, temo, anche per quelli che verranno… Infine la quantità di regali che ricevono i bambini in questo Natale. La diseguaglianza tra i “nostri” ragazzi che partono con la carta di credito prepagata e i “loro” ragazzi che partono per la traversata del deserto e poi l’inferno libico e poi, forse, il Mediterraneo, è davvero incommensurabile. Come la “fame” degli italiani e degli europei e degli americani, che è soprattutto fame di desiderio che non c’è più.
Il Forum nella sua visione individua tre cause che hanno contribuito all’aumento delle disuguaglianze: l’inversione a U delle politiche pubbliche, la perdita di potere negoziale del lavoro e il cambiamento del senso comune, è d’accordo con questa lettura?
Direi che le prime due ragioni dipendono dalla terza. Però io la chiamerei in un altro modo. L’espressione “senso comune“ fa il paio con il “buon senso“ che riempie la bocca dei politici e dei chiacchieratori in tv. Sono parole di cui non ho mai compreso il significato. Questo cambiamento del senso comune proverei a chiamarlo: sospensione della realtà. Ogni nostra azione non risponde più ad eventi reali, ma a fatti che accadono nella nostra “percezione“. Ma l’uso corrente della parola percezione non c’entra più niente con il suo significato: la percezione esatta di sé e degli altri, del tempo, dello spazio, è il lavoro di una vita. Le nostre scelte quotidiane invece, rispondono alla prima impressione di fronte ad un fenomeno. Chiamare l’impressione, fuggevole e superficiale, percezione, ci stacca completamente dal reale. E ci autorizza a vivere una vita “impressionista“. Le politiche sociali e la contrattualità sul lavoro, dipendevano da una realtà concreta, anzi da due: le guerre mondiali del secolo scorso. E dalla conseguente promessa che l’Occidente si era fatto: non accadrà mai più! La memoria dei milioni di morti di quelle guerre è sfumata come in un quadro di Monet. Nel frattempo la popolazione mondiale è cresciuta da tre a sette miliardi. E le tecnologie hanno reso più accessibile, sia realmente che, soprattutto, virtualmente, ogni angolo del pianeta. Ma questo non sembra andare nella direzione della “consapevolezza”. Non sembra che ci aiuti a comprendere la sofferenza dei poveri in ogni parte del mondo. Sembra piuttosto che serva ad occultarla. Il sogno delle politiche sociali e della contrattazione era: liberare il tempo dal lavoro per dedicarlo all’Otium romano, che non è il padre dei vizi, ma tempo per la cultura, la ricerca, la meditazione. Oggi sappiamo che, nel mondo ricco, la liberazione dal lavoro serve per andare su Internet ad insultare tutto e tutti per scaricare la noia. L’impressione che ho, quindi, è che la parte ricca di questo mondo sempre più affollato, riducendo all’oblio la sofferenza e il dolore, possa permettersi una sospensione totale della realtà, mentre la restante parte del mondo deve fare i conti con una realtà quotidiana molto concreta. Questa credo sia la vera diseguaglianza. Le politiche sociali e la contrattualità del lavoro appartengono al ‘900. E hanno determinato una parte di mondo che ormai è diventata molto piccola e poco popolata. La causa ultima delle vere disuguaglianze credo risieda nella costruzione fittizia di realtà separate.
In un’intervista a Radio Rai, parlando della locuzione “luoghi comuni” lei sottolineava come nell’aggettivo comune, talvolta usato in modo negativo, c’è dentro il tema della comunità, della relazione tra persone. Seguo il suo ragionamento e le chiedo il “senso comune” diffuso oggi in Italia che tipo di comunità racconta?
Credo si tratti di un’intervista di qualche tempo fa, di prima che i politici cominciassero a brandire minacciosamente il Vangelo, come fanno i predicatori fondamentalisti americani… Comunque, sì, forse l’intervista si riferiva ad un film sulle periferie che ho fatto una decina d’anni fa. Dunque: la signora Thatcher, una delle affossatrici di politiche sociali e contrattualità, una volta disse: non esiste la società, esistono solo uomini, donne, famiglie. Girando quel film mi sono reso conto che, per fortuna, aveva torto. Torto marcio. Le periferie che si sono salvate, che non sono diventate ghetti invivibili e violenti, sono quelle che hanno costruito società: sono quelle che sono riuscite ad uscire dalle famiglie per formare comunità. Sono le tante periferie italiane ma anche europee e americane, ricchissime di associazioni, di volontariato, di voglia di conoscere. Ma questo la televisione non lo racconta, quindi Internet non lo raccoglie. Tutte queste persone, queste comunità, hanno un “senso comune”, che però io preferisco chiamare consapevolezza, perché sono alla ricerca di una percezione esatta della realtà. E tutto questo mondo “consapevole” racconta di solidarietà, di integrazione, di coraggio e di rischio… Il “senso comune” fatto di paura, sicurezza, percezione, eccetera, è una stupidata che fabbrica la tv. Il fatto che tanta gente ci creda ed ci organizzi la propria vita, non la rende più reale. Proviamo a vederla così: e se semplicemente, tutto questo “senso comune”, visto che si fonda su parole “virtuali”, che non vogliono dire niente, semplicemente non esistesse? Che Italia o Francia o Spagna purchè se magna volete che racconti qualcosa che non esiste?
Sempre nell’intervista citata, lei ricorda che all’inizio della sua carriera con il Laboratorio Teatro Settimo, esperienza che ha contribuito a diffondere in Italia il teatro di narrazione, lei e i suoi compagni di strada sentivate, era il 1985, che la realtà fosse frammentata, fatta di piccole schegge e scorie, e credevate che il teatro dovesse occuparsi di quei frammenti. Oggi la realtà ci sembra sia narrata per lo più attraverso slogan e status, frasi secche, semplici, e sembra difficile comunicare la complessità di un visione, di un problema, di una situazione. Ci sono analogie tra ieri e oggi? E il teatro – e più in generale il mondo della cultura – che funzione si trova a svolgere?
Il teatro è: essere presenti a sé stessi, e, di conseguenza, agli altri, al tempo e allo spazio. Alla fine dell’altro millennio, tutto sembrava finito. Dio era morto, e uno storico americano di origine giapponese decretò la fine della storia. I miei compagni ed io eravamo giovani e non volevamo rassegnarci a questo senso di “mille non più mille” che negava il futuro. La reinvenzione della narrazione fu, per noi: riprenderci il futuro. Riconquistarci il tempo. Anche la parola narrazione, però, è stata rivoltata come un guanto, come la parola percezione. Oggi, per talkshworld la parola narrazione significa: fabbricare realtà fittizie ad uso e consumo di chi le fabbrica. Ma questo si chiama in un altro modo: propaganda. La narrazione costruisce realtà immaginate, certamente, ma che servono a far balenare la concretezza del reale, che non è mai afferrabile definitivamente. Oggi tutti parlano di narrazione perché pochissimi la fanno. La cultura, e l’arte in generale, potrebbero coagulare frammenti anche piccoli di realtà condivisa. Il teatro ha tre fonti: il rito, il gioco e, appunto, la narrazione. Quindi ha un ruolo importante perché avviene in tempo reale. Perché in teatro, a differenza che negli altri “media” chi parla è lì, presente, con chi ascolta. Quindi chi parla, mentre parla, può ascoltare chi ascolta. Ascolto è un’altra parola abusata e brutalizzata: tutti ne parlano per la semplice ragione che nessuno ascolta veramente. Così tutto finisce a slogan e pane e Nutella.
Sin dai suoi esordi e oggi con l’Istituto per le pratiche teatrali cura della persona, lei ha affrontato in tutti i suoi lavori grandi e diversi temi sociali come la vita nelle periferie e le migrazioni e anche delicati temi personali ma sempre legati alla relazione con l’altro come il disagio psichico e la paura, e ha dato voce ai protagonisti delle storie spesso lavorando con attori non protagonisti. E’ anche dando voce ai vulnerabili, agli ultimi e ai penultimi che si cambia il senso comune?
Credo di aver maturato, nel tempo, una insofferenza profonda verso ogni forma di contraffazione. Ai tempi di Pirandello era chiara la differenza tra finzione e falsità. Era già chiaro che il problema non era: vero contro falso, ma le continue oscillazioni vero/finto/falso. Oggi è tutto più sfumato, come dicevo, più “impressionista”. Abbiamo bisogno di fuoco, di mettere a fuoco. Oggi tutti parlano degli immigrati, dei poveri, degli ultimi. Talkshoworld non fa altro che parlare di “loro”. E’ il modo più efficace per escludere, per emarginare, per creare diseguaglianze: noi e loro. Due mondi separati. Formigli, la Berlinguer, Floris e tutti gli altri si intrattengono continuamente su questi soggetti. Ma quando mai avete visto un immigrato parlare nei programmi più “popolari”? E ho citato questi conduttori, tra i tanti, perché sono persone sensibili, che parlano dei diseredati perché, immagino, ne hanno sinceramente a cuore le sorti. Eppure non fanno l’unico gesto che potrebbe davvero mettere a fuoco qualcosa di vero, cambiare il “senso comune” in “consapevolezza”: far parlare i protagonisti delle loro narrazioni. Io, nel mio piccolo, ci provo. E’ complicato, richiede pazienza, indulgenza, comprensione… Ma temo sia l’unica strada.
Lei racconta che dalle 300 interviste condotte per preparare lo spettacolo “La Paura SiCura” le persone, alla domanda, “Di cosa hai paura?” hanno dato “risposte esistenziali” come la solitudine, la morte propria e dei cari, le malattie e nessuno ha risposto “degli stranieri”. Eppure secondo l’ultimo rapporto Censis gli italiani sono incattiviti e collegano in percentuali altissime la presenza dei migranti con la criminalità (fa questa associazione il 75% degli intervistati), quindi appare forte un “bisogno radicale di sicurezza”. E’ tutto vero o non è forse anche questa una narrazione che sta diventando in parte comoda come quella di chi sostiene che le disuguaglianze siano inevitabili?
Il Censis e tutti gli altri rispettabilissimi istituti statistici forniscono elementi per comprendere la realtà, ma non forniscono la realtà. Se la realtà fosse un’automobile, i dati del Censis sarebbero il carburante. Che è importantissimo, senza il carburante l’auto non parte. Ma il carburante non è l’automobile. Oltretutto ci sono vari tipi di carburante. Oggi ci sono persino auto ibride o elettriche. Qualche tempo fa al TG del Piemonte hanno detto che i crimini sono in netta diminuzione. Ma i cittadini hanno sempre più paura. Quindi hanno chiamato il capo della polizia, Franco Gabrielli, per affrontare la questione. Cioè: non ho il cancro, ho fatto tutte le analisi e non ho il cancro! Però io sono lo stesso convinto, contro ogni evidenza, di avere il cancro, quindi chiamo l’oncologo. Cosa potrà fare, poveretto, l’oncologo? Se è uno onesto cercherà di convincermi che non ho bisogno di lui, ma di uno psicologo. Se no? Magari mi farà fare un po’ di chemio, giusto per non deludermi… Allora: nel mio film “La paura siCura”, come sempre, faccio domande che non richiedono, come risposta, opinioni, ma storie. Se chiedo ad una persona se pensa di “essere in sicurezza”, dirà che no, che non si sente “in sicurezza”. E questo “dato” contrasterà di brutto con altri “dati” dello stesso Censis, e di tutti gli istituti di ricerca, che indicano una diminuzione costante dei reati… Allora bisognerà ricorrere alla famosa “percezione” per spiegare un fenomeno inspiegabile. E’ tutta questione di carburante. Se chiedo alla stessa persona: quando ti sei sentita al sicuro, in quale momento, dove? Da sola o con altri?… Questa persona dovrà rispondere con una storia. Non potrà rispondere con una opinione impressionista. E, magari, risponderà come una ragazzina che mi ha detto: tra le braccia di mia mamma. Cosa c’entra sentirsi al sicuro tra le braccia della mamma con il Censis? Le statistiche forniscono pezzi di realtà, insieme alle storie, alle immagini, ai canti, alle preghiere… Ma per avere una esatta percezione della realtà, bisogna lavorare sodo di “montaggio”, riconoscendo ogni pezzo dell’automobile che stiamo costruendo, dandogli il nome esatto. Ovvio che se confondiamo parole e situazioni il risultato è la sospensione della realtà. E la sospensione della realtà produce stati di coma che fanno dire: le disuguaglianze sono inevitabili.
Un’ultima domanda per riportarla in teatro, suo habitat naturale. Se dovesse portare in scena uno spettacolo di sensibilizzazione contro le disuguaglianze chi metterebbe sul palco davanti agli spettatori?
Le persone che ho “messo sul palco” nei miei ultimi spettacoli. In “Cuore/Tenebra” partivano dalla platea centocinquanta ragazzini delle scuole superiori, e “conquistavano” il palcoscenico insieme ad Alberto, che si presentava così: – Mi chiamo Alberto Rosso e frequento orgogliosamente il Centro d’Igiene Mentale di Settimo Torinese. – Poi raccontava il suo licenziamento e le conseguenze sul suo corpo di quel trattamento… Poi c’era Gerald, che raccontava il suo viaggio attraverso il deserto, l’inferno libico e la traversata del Mediterraneo, ma anche il suo desiderio di diventare diplomatico… In un altro spettacolo, “Supplici a Portopalo”, raccontavo la tragedia di Eschilo, e alla fine salivano sul palco gruppi di immigrati arrivati da poco, molti non parlavano italiano. Eppure vederli sul palcoscenico del Teatro Carignano a Torino o del teatro di Ventimiglia ha reso un po’ meno diseguali tutti i presenti.