Questo articolo è stato pubblicato sull’edizione di Napoli di Repubblica lunedì 11 giugno.
Le parole sui migranti del neo Ministro agli Interni Matteo Salvini non sono solo un chiaro indicatore dell’avvio di un percorso di restaurazione sui temi dei diritti umani e civili (per altro mai nominati come attenzione o finalità nel contratto di governo) ma anche e più in generale connotano chiaramente a destra lo sfondo dell’impianto politico culturale del nuovo governo Lega-5stelle.
Una svolta che, al di la di quelle che saranno le ricadute concrete, modificherà in un senso peggiorativo il clima del Paese, sdoganando la legittimità delle posizioni più egoistiche e corporative, continuando a condurre anche la gestione del governo in un’ottica elettorale, costruendo consenso sulla rappresentazione del fenomeno immigrazione piuttosto che su proposte in grado di agire sul dato di realtà.
Una deriva pericolosa che porta la politica ad abbandonare definitivamente il coraggio di investire sulla convivenza e l’ospitalità, preferendo alimentare il rifiuto e il rancore, disegnando in tal modo un futuro difficile da prevedere e quasi sicuramente segnato da insicurezza collettiva e da conflitti diffusi.
Per questo, sono pienamente in sintonia con quanto ha scritto Gennaro Matino sulle pagine di questo giornale domenica scorsa: “Non resterò a guardare se viene schiacciato chi per il colore della pelle è considerato straniero, chi per sesso è ritenuto nemico, chi per diversità di opinione è visto come un appestato”.
In ragione di questo, ogni luogo del nostro quotidiano va vissuto anche come ambito in cui trovare argomenti e riflessioni per proporre azioni e strategie di argine e contrasto a tale deriva. Sapendo che per avere qualche possibilità di successo tali posizioni non possono essere proposte solo sul piano della contrapposizione ideologica o della opposizione istituzionale, ma vanno innestate e strutturate, per forma, linguaggi e attenzioni, dentro ai nostri contesti di vita. Vanno proposte e sostenute nei luoghi di lavoro, sui mezzi pubblici, mentre facciamo la spesa o attendiamo il taglio di capelli da un barbiere o da una parrucchiera.
Perché, è bene dirselo con chiarezza, le politiche proposte da questo governo trovano ampio consenso tra le persone, spesso tra le aree più vulnerabili e povere del Paese. Tra quel popolo che non ha più trovato una sinistra capace di orientare il conflitto sociale verso istanze di rivendicazione collettiva, donandolo a chi proponeva,al contrario, ipotesi di uscita individualistiche, corporative, spesso cattive verso gli ultimi e i differenti.
Visioni di chiusura, che spesso fanno presa e hanno successo tra i ceti più poveri e vulnerabili fino ad arrivare al punto che le posizioni orientate alla tutela e promozione dei diritti delle persone con background migratorio, e di quelle più fragili e in difficoltà in generale, sembrano essere diventate, come propone provocatoriamente Marco Revelli, questione di chi se lo può permettere, perché benestante e non a rischio di scivolare verso il basso.
Per questo non basta affermare, per quanto giusto e liberatorio sia, che Salvini è razzista o che “Napoli lo odia”. Dobbiamo tutte e tutti, e in primis chi si assume la responsabilità di governare o di agire la politica, investire e aggiornare il nostro fare e le nostre narrazioni, per provare a parlare con chi è preoccupato, anche con chi è cattivo e rancoroso, per provare a spiegare, con gli argomenti giusti e trovando terreni di alleanza, che solo nell’incontro e nella convivenza ci sono futuri possibili di benessere collettivo.
Dobbiamo provare su questi temi, con una paziente opera di rammendo, a rimettere insieme la frammentazione sociale che scompone le comunità e provare a ricomporre uno specchio in cui gli attori di un territorio possano riconoscersi reciprocamente. Sapendo guardare anche alle responsabilità di chi ha governato fino ad ora. Perché non vi è dubbio che negli ultimi anni la scelta di approcciare il tema immigrazione con l’unico parametro della risposta all’emergenza, tra l’altro provando a imitare la destra sul suo terreno, non solo non ha pagato sul piano elettorale (banalmente tra l’originale e la copia i consumatori scelgono quasi sempre l’originale), ma ha finito per mettere in difficoltà il mondo di chi provava a fare accoglienza con qualità e professionalità.
Le politiche dell’emergenza non solo hanno abbassato la qualità dei servizi e alzato il conflitto sociale ma hanno favorito una forte invasività di soggetti profit nella gestione delle strutture di accoglienza. Soggetti profit che spesso hanno spesso speculato sulla pelle dei migranti finendo per alimentare nella percezione dell’opinione pubblica quell’idea di “business sull’immigrazione” che il vice-premier Di Maio ripropone come un mantra nei suoi interventi sull’immigrazione. Con buona pace di quei soggetti, associazioni e cooperative sociali che da quel mercato, per scelta sono rimasti fuori dichiarando, quasi sempre inascoltati dai decisori, che quel sistema non funzionava perché inconciliabile con la tutela della qualità dei servizi e di conseguenza incoerente con la finalità di tutelare i diritti e la dignità delle persone accolte.
Su questi temi, con grande umiltà ma con la consapevolezza di un’urgenza che non è più rimandabile, dobbiamo tornare a produrre informazioni, narrazioni, impegno per proporre un’alternativa alle ipotesi di chiusura che prima di essere proposta di governo sono diventate sentire diffuso nella nostra società. Sapendo, come ci ricordava Bauman che: “Quella di oggi è una paura molto simile all’ansia, ad un’incessante e pervasiva sensazione di allarme; è una paura multiforme, esasperante nella sua vaghezza……Dentro di essa i legami umani si frantumano, lo spirito di solidarietà si indebolisce, la separazione e l’isolamento prendono il posto del dialogo e della cooperazione. Dalla famiglia al vicinato, dal luogo di lavoro alla città, non c’è ambiente che rimanga ospitale”.