Il dibattito pubblico degli ultimi mesi sulla regolarizzazione degli stranieri pone, nuovamente, un tema di diritti fondamentali, di lavoro e di filiere produttive locali. Perché non sia l’ennesima occasione mancata, occorre un’analisi critica dei processi migratori e degli impatti che le dinamiche locali hanno su territori e comunità.
La regolarizzazione dei migranti ha attraversato il discorso pubblico e politico delle ultime settimane in piena emergenza sanitaria. Si è parlato prevalentemente di sanatoria, di regolarizzazione a garanzia delle produzioni e delle filiere agro-alimentari. Poco si è parlato di diritti, di persone, siano essi cittadini con permesso di soggiorno o richiedenti asilo, siano essi lavoratori irregolari o meno. Non si è esteso lo sguardo ai territori, alle condizioni di vita dei migranti ed è mancato un ribaltamento dell’analisi, che parta dall’offerta di servizi e lavoro per le comunità, per il mantenimento dei sistemi di cura e ambientali, non solo produttivi e di filiera. Una prospettiva che tenga insieme diritti per l’intera popolazione straniera presente sul territorio nazionale, valore, tutela e domanda di lavoro, offerta di servizi (anche in chiave di salute pubblica) e nuovi modelli di relazioni sociali.
Parliamo di circa 600.000 persone in condizione incerta e irregolare (Fondazione Ismu). Se consideriamo i risultati delle leggi di regolarizzazione del 2002, 2009 e 2012, scopriamo che la maggior parte degli stranieri regolarizzati lavorava nel settore domestico e assistenziale, di genere femminile, di provenienza europea. Visto dalla prospettiva delle aree marginali, la presenza di stranieri è legata anche alla tenuta demografica, alla domanda e all’offerta di servizi e di alloggi. Le misure di emersione, dunque, sono sicuramente necessarie e urgenti, ma adottarle in chiave emergenziale rischia di avere un semplice effetto tampone, di non risolvere il rischio del lavoro irregolare in agricoltura, né riduce le maglie del caporalato e dello sfruttamento. Inoltre, il rischio è quello di dividere “i migranti salvati da quelli sommersi” e di non far emergere, come sottolinea Gianfranco Schiavone (vice-presidente dell’Asgi e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste), gli stranieri senza permesso di soggiorno sulla base della loro semplice presenza, con esclusioni connesse a profili penali, dando loro un permesso per ricerca di lavoro.
Come segnalato da diversi autori, occorre considerare una narrazione che descrive una storia diversa, che parla di confini e delle severe misure restrittive sugli ingressi dai paesi membri nei giorni che hanno preceduto la pandemia. Si è parlato di un esodo di massa, in particolare dall’Italia (primo Paese per numero di emigrati rumeni, che sono più di 1,2 milioni), e soprattutto dalle regioni del Nord, verso la Romania. Se, quindi, da un lato si conferma la diminuzione dei lavoratori comunitari impegnati nei distretti agricoli (a partire dal 2011), dall’altro cresce il numero di operai agricoli extracomunitari a cui è stato accordato un permesso stagionale, quasi a compensare in parte la perdita di braccianti comunitari.
C’è però un filo che lega queste due distinte narrazioni e che dovrebbe emergere come chiave del processo di regolarizzazione, ovvero la capacità di riconoscimento e l’identificazione di alcune questioni chiave sulle quali investire, in termini di diritti di cittadinanza e di economia fondamentale: filiere agricole, leggi sull’immigrazione e qualità del lavoro. Parliamo della mancanza di politiche strutturali che riconoscano i migranti impegnati in agricoltura e nei servizi alla persona come lavoratori e come persone. Inoltre, esiste un ulteriore legame tra persone e luoghi, spesso poco conosciuto e raccontato: è l’impatto dell’immigrazione straniera sullo sviluppo socioeconomico delle regioni rurali e montane europee.
Amministratori locali e cittadini delle regioni rurali e montane sono stati scarsamente coinvolti nel dibattito sull’impatto del fenomeno migratorio, che ha visto prevalere la prospettiva dei centri urbani. Finanziato nell’ambito del programma di ricerca dell’Unione Europea Horizon 2020 e coordinato dall’Istituto per lo Sviluppo Regionale Eurac Research, il progetto di ricerca MATILDE (Migration Impact Assessment to Enhance Integration and Local Development in European Rural and Mountain Regions) si propone di approfondire il potenziale di sviluppo della presenza straniera, con particolare attenzione alle regioni rurali e montane. Grazie a 13 casi studio locali e alla partnership tra ricercatori e attori locali, il progetto attiva le sfere pubbliche al di fuori delle aree urbane, contribuendo a correggere percezioni errate e a invertire la prospettiva sulla migrazione, troppo spesso rappresentata come un peso per le società e i territori che accolgono.
L’Italia ospita attualmente 95.000 richiedenti asilo e rifugiati nei suoi programmi di accoglienza. La loro situazione e le loro possibilità di integrazione meritano senza dubbio attenzione, ma allo stesso tempo va ricordato che nel nostro Paese vivono più di 5 milioni di cittadini stranieri, che rappresentano l’8,7% della popolazione. Il loro impatto e le loro esigenze devono essere considerati quando si discute di migrazioni ma sono spesso oscurati dal dibattito sui richiedenti asilo. Per questo motivo, adottare una visione ampia sulla presenza straniera, permette di considerare tutte le diverse categorie di “cittadini di paesi terzi” (migranti economici e familiari, studenti e ricercatori, migranti altamente qualificati, richiedenti asilo, rifugiati e gruppi vulnerabili).
Con una prospettiva territoriale, inoltre, diventa emblematico il legame tra ruolo delle istituzioni pubbliche, degli attori economici e del terzo settore nel supportare le ricadute positive dei processi di integrazione. È rivolgendo particolare attenzione ai bisogni e alle risorse delle regioni rurali e montane, ai contenuti e alla tutela del lavoro, dei lavoratori e delle imprese, che nascono interessanti piattaforme di collaborazione, emersione e riconoscimento di lavoro immigrato regolare. Humus, la prima piattaforma di ricerca di lavoro dedicata all’agricoltura e impegnata a favorire contratti regolari, nasce in Valle Grana (Cuneo) per combattere le derive del caporalato e del lavoro grigio, per uscire dall’informalità nell’assunzione dei lavoratori in agricoltura. Attraverso la sigla di contratti di rete territoriali, la piattaforma facilita per le aziende la condivisione di manodopera: le aziende possono usufruire di vantaggi economici e temporali da un’assunzione condivisa e i braccianti agricoli hanno la garanzia di un contratto regolare in agricoltura per tutto l’anno, grazie alla circolarità stagionale che la piattaforma attua mettendo in rete aziende con produzioni differenti. Ad alimentare la piattaforma è la rete di aziende agricole che vogliono valorizzare la valle in cui vivono, e l’idea che i piccoli attori economici di un territorio possano creare lavoro e integrazione se uniscono le loro forze e cominciano a lavorare in rete.
La presenza di immigrati in aree interne e nelle terre alte ci dice che molte difficoltà di accesso (ai servizi, al lavoro) accomunano residenti e non, e le soluzioni migliori adottate hanno valorizzato la coesione sociale, le scale di relazioni tra persone in condizioni simili (chi investe in percorsi di vita, in una nuova agricoltura, in aree fragili e marginali) accorciando le distanze tra persone e contesti geografici, aree urbane e non. Da questa prospettiva, le proposte da attuare devono muovere da un’attenta analisi critica dei processi migratori (mobilità e confini), fondata su un’idea di economia pubblica che investe in diritti fondamentali di cittadinanza e in strumenti di tutela del lavoro e sviluppo territoriale.