In un paese come il nostro, dove clientelismo e nepotismo sono diffusi, l’origine sociale determina i destini di molti giovani e i contributi di chi più si sforza sono spesso sottovalutati, premiare il merito appare un’indicazione inattaccabile. D’altro canto, la meritocrazia, almeno a parole, è un credo centrale delle società democratiche dove, a differenza di quanto avveniva nelle vecchie aristocrazie, i vantaggi dovrebbero dipendere dalla bravura individuale e non dallo status ereditato. Premiare il merito è, invece, nozione assai ambigua e controversa.
Uno dei problemi su cui più la letteratura di etica pubblica ha portato l’attenzione riguarda l’influenza diffusa del caso. Si consideri il merito come insieme (somma o moltiplicazione) di abilità e sforzo. Le abilità sono influenzate da una pluralità di variabili che nulla hanno a che fare con i singoli individui. La lotteria naturale presiede alla definizione dei nostri geni e la lotteria sociale influenza sia le dotazioni naturali (le condizioni di povertà/svantaggio in cui versa la madre potrebbero influenzare fin dalla gravidanza le abilità dei figli) sia le possibilità di sviluppo delle abilità stesse. Quest’ultima influenza è inevitabile, anche qualora si abbracci una nozione sostanziale di meritocrazia volta a sganciare i destini dei figli da quelli dei genitori. Il clima culturale che si respira in famiglia, i modelli di ruolo offerti dai genitori, le aspirazioni e le scelte di vita di questi ultimi non possono, infatti, non influenzare la formazione dei figli.
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Menabò n. 115/2019