Gli ultimi dati ISTAT sulla povertà in Italia segnalano una situazione stabile ma certamente ancora preoccupante: oltre 1,8 milioni le famiglie in condizioni di povertà assoluta e poco più di 3 milioni (11,8%) in povertà relativa. Un commento di Nunzia De Capite*
Due premesse prima di commentare i dati pubblicati giorni fa dall’Istat, necessarie per sgombrare il campo da falsi dubbi:
- non si può fare una lettura dei dati sulla povertà solo considerando le variazioni da un anno all’altro l’incidenza della povertà assoluta nel nostro paese ha infatti raggiunto livelli tali per cui non è plausibile attendersi cambiamenti di alcun genere da un anno all’altro. Bisogna considerare piuttosto i trend di medio periodo (cinque-dieci anni) che sono maggiormente in grado di darci informazioni su come il fenomeno stia cambiando nella sua estensione (quanti poveri?) e rispetto ai profili interessati (chi sono i poveri?). In questa prospettiva per esempio alcuni studi fanno emergere che nel nostro paese la povertà si sta trasversalizzando: sta aumentando nelle regioni settentrionali, colpisce anche le famiglie con due figli, è aumentata dal 2005 al 2015 fra coloro che hanno un lavoro e fra persone giovani e adulte (25-44 anni).
- che relazione c’è tra i dati sulla povertà assoluta e le misure di contrasto alla povertà di cui l’Italia si è dotata da tre anni a questa parte? Con il SIA prime e con il Rei dopo, l’Italia si è finalmente dotata dal 2016 di una misura nazionale di contrasto alla povertà. Tuttavia per due ragioni l’effetto di queste misure sul fenomeno della povertà assoluta non sono immediate né apparentemente visibili: primo, gli importi previsti dal SIA e dal REI erano contenuti e tali da non rendere sempre possibile l’uscita delle persone che hanno percepito queste misure dalla condizione di povertà, quello che è ragionevole attendersi non è tanto la diminuzione del numero di persone in povertà assoluta, quanto piuttosto la riduzione del livello di povertà: non un numero più basso di persone in povertà ma persone meno povere prima. Questo è quello che in effetti si è registrato nel 2018: la cosiddetta intensità di povertà (ovvero quanto la spesa media delle famiglie povere è al di sotto della soglia di povertà) si è ridotta in tutte le aree del paese tranne che nel Nord-est. Le misure nazionali stanno dunque gradualmente producendo qualche effetto se non altro in termini di alleviamento dal punto di vista economico e materiale. Secondo: in alcuni casi le condizioni economiche in cui versano le persone in povertà assoluta sono talmente difficili da richiedere un lasso di tempo più lungo di uno o due anni per poter essere migliorate anche di poco.
Venendo ai dati del 2018, che cosa resta invariato e che cosa cambia? I dati del 2018 confermano alcune caratteristiche del fenomeno della povertà nel nostro paese ma aggiungono anche qualche elemento di novità degno di interesse: il 46,7% dei poveri assoluti risiede nel mezzogiorno, si tratta perlopiù di coppie con due figli e nel 68% sono famiglie di soli italiani. E fino a qui nulla di nuovo, potremmo dire. Quello che emerge di interessante lo si individua però leggendo le cosiddette variazioni dell’incidenza statisticamente significative: esse ci dicono che tra il 2017 e il 2018 è aumentata l’incidenza di famiglie povere composte da monogenitori e soprattutto da monogenitori con figli minori (si tratta della variazione percentuale più alta: +5% in un anno); è aumentata l’incidenza di povertà assoluta fra le famiglie che vivono in piccoli comuni del Nord e fra i nuclei con minori tra i 14 e i 17 anni che risiedono nel centro. Sono questi gli elementi su cui si dovrebbe iniziare a riflettere e su cui convogliare le attenzioni sia a livello politico che operativo per evitare che questi segnali di disagio si cronicizzino e consolidino. Questo è proprio quello che in questo momento non possiamo permettere che accada.