È nelle aree interne che può nascere una genuina innovazione sociale, non funzionale alla stabilizzazione del sistema, ma al suo mutamento.
Intervista a Giovanni Carrosio*
Lei si occupa da tempo di sviluppo e coesione territoriale, nella ricerca e sul campo. E’ d’accordo con la lettura del Forum che chiama l’attenzione su una forte dimensione territoriale delle disuguaglianze? Ci può fare tre esempi concreti di luoghi che ha attraversato in cui le disuguaglianze, soprattutto sociali e di riconoscimento, sono particolarmente evidenti?
Declinando il tema delle diseguaglianze anche a livello territoriale, il Forum coglie una dinamica che è allo stesso tempo di lungo corso e inedita. Di lungo corso, perché il tema delle diseguaglianze tra territori ha attraversato tutto il ‘900, determinando anche alcune fratture della modernità – città/campagna e centro/periferia – che hanno mosso le lotte sociali e orientato le strutture di rappresentanza politica e sociale. Fratture che avevano sia una dimensione oggettiva (misurabile dagli studiosi), che una dimensione soggettiva (percepita dalle persone e dai corpi sociali). Erroneamente, molti hanno pensato che nel passaggio alla società post-fordista, queste due fratture tendessero a scomparire, insieme all’affievolirsi del conflitto soggettivo tra capitale e lavoro. Oggi le èlite si sono trovate spiazzate, avendo seguito per anni discorsi accondiscendenti sulla modernità che svapora, dimenticandosi la lezione di Offe, secondo il quale il vapore post-moderno e il ghiaccio della modernità crescono insieme e si auto-alimentano. La mia idea è che queste fratture restino nelle strutture di fondo, cambiando però forma e modi di soggettivizzazione. E qui c’è la dinamica inedita. Non a caso il Forum mette l’accento sulle diseguaglianze di riconoscimento, che rimandano alle identità. Nonostante le diseguaglianze materiali siano ancora oggettivamente misurabili, è soprattutto sulle identità che prende forma il conflitto riemergente tra centro e periferia, che a mio avviso oggi va declinato come conflitto tra flussi e luoghi. La società contemporanea, quella del capitalismo informazionale, organizzando le proprie strutture dominanti nella logica della rete, produce tensione tra il modo di organizzare il tempo e lo spazio delle èlite (ad esempio, le città che interagiscono in una rete globale di nodi strategici) e il tempo e lo spazio esperito dalla maggior parte delle persone, che continuano a vivere in luoghi, che però, che vengono connessi e disconnessi da questa struttura reticolare a seconda delle scelte operate dalle èlite e delle esigenze di riorganizzazione della produzione e del consumo. A livello individuale, quando la rete disattiva il sé, l’io costruisce il proprio senso di sé rifiutando i riferimenti globali e attingendo alle identità primarie. Il processo di disconnessione diviene cioè reciproco: gli esclusi rifiutano la logica unilaterale di dominazione strutturale ed esclusione sociale. Questo avviene anche su scala territoriale. Quando le èlite lavorano per strutturare lo spazio dei flussi, alimentando la concentrazione degli investimenti negli agglomerati urbani e nelle interconnessioni veloci tra di essi, provocano una disattivazione dei luoghi, che rispondono con una propria agency, recuperando repertori di auto-riconoscimento identitario e purtroppo spesso regressivo. Attraversando l’Italia delle aree interne, la cosa che mi ha colpito di più è proprio questa. Di fronte a evidenti e oggettive diseguaglianze materiali, riscontrabili nel sistema di indicatori costruito della Strategia Nazionale per le Aree Interne, l’elemento percepito in modo più netto dagli abitanti di queste aree è la diseguaglianza di riconoscimento. Essa si traduce nella denuncia dell’egemonia culturale metropolitana con la quale le amministrazioni centrali regolano i settori economici, l’istruzione, la sanità, ecc. Nella percezione che il proprio mestiere, le proprie conoscenze, le professionalità, la cultura straordinariamente biodiversa di queste aree venga ridotta a folclore o retaggio di un passato da rimuovere. Ricordo nitidamente alcuni esempi. In valle Maira (provincia di Cuneo), durante un focus group con gli attori rilevanti del territorio, un allevatore e produttore di formaggio Castelmagno, ha esposto tutte le regole per la caseificazione e commercio dei prodotti – pensate da decisori che hanno in testa l’agroindustria – che mettono fuori gioco le piccole imprese della montagna. Per sopravvivere, spesso, sono costrette a disattendere norme previste da leggi e regolamenti. Si tratta, tra l’altro, di norme sull’igiene che impongono procedure di lavorazione che standardizzano i prodotti, anche nelle loro qualità organolettiche e gustative, attaccando l’elemento di competitività più forte dell’agricoltura contadina, ovvero la distintività dei propri prodotti. Nell’Antola-Tigullio, invece, area appenninica alle spalle di Genova e Chiavari, ricordo lo stupore per come l’Agenzia Italia Sicura sia intervenuta con svariati milioni di euro nel finanziamento dello scolmatore del Bisagno, opera funzionale a ridurre il rischio alluvioni a Genova, senza porsi il problema di tutto il territorio che sta a monte di Genova. Un territorio fragile, spopolato, dove i boschi sono abbandonati e dove origina il dissesto idrogeologico che provoca danni in città. I pochi operatori forestali rimasti nell’area, che lavorano in ambiente ostile (boschi impervi e legname poco pregiato), sono manutentori attivi del territorio e la loro scomparsa potrebbe incrementare il rischio idraulico nel grande agglomerato urbano costiero. Essi denunciano con forza come il loro ruolo non venga riconosciuto, come le conoscenze pratiche di cui sono depositari siano estromesse dalle modalità con le quali si aggredisce il problema del rischio idraulico. In Alta Marmilla (Sardegna), ancora, tutto il lavoro fatto da ingegneri locali per il recupero di materiali tradizionali e la loro riproposizione per la conversione ecologica dell’edilizia e l’efficientamento energetico degli edifici, è stato vanificato da normative e sistemi di incentivazione che hanno agevolato i materiali sintetici sui quali sono leader le grandi aziende. Uno dei tanti casi di predominio ingiustificato del “sapere tecnico esperto” sul “sapere tecnico locale”, che alimenta l’avversione nei confronti di un sapere tecno-scientifico incapace di essere riflessivo rispetto a percorsi tecnologici differenti ma altrettanto efficaci. A questi esempi se ne possono affiancare tanti altri, anche sulle diseguaglianze sociali. Possibilità strutturalmente più basse rispetto alle aree urbane di acquisire competenze elevate nell’istruzione, di avere prestazioni socio-sanitarie sufficienti, di potersi muovere sul territorio attraverso forme di trasporto che non siano esclusivamente private e individuali. Per non parlare del primo soccorso, che in alcune aree ha tempistiche drammatiche. O della mobilità scolastica: ragazzi che passano sull’autobus 1 ora e 50 minuti per andare a scuola a Chiavari partendo da Santo Stefano d’Aveto (Liguria, 51 km), mentre i treni ad alta velocità portano gli abitanti di Firenze a muoversi su Bologna (104 km) in 35 minuti. Connettività digitale scarsissima e segnale a singhiozzo per i telefoni cellulari. Persone che si sentono “intrappolate nel locale”, a fronte di una società in rete che connette a velocità supersonica i più disparati punti del pianeta.
Come si costruiscono sinergie tra pubblico, privato e cittadini organizzati per ricucire gli strappi e le faglie che negli anni si sono create?
Non credo sia realistico immaginare di ricucire le faglie. Esse originano e si modificano a partire dalle strutture della società, il ghiaccio di Offe. Però è possibile riconoscerle, e dopo averle riconosciute lavorare per costruire politiche e azioni che dentro le faglie modifichino i rapporti di forza. Se la faglia è luoghi e flussi, le azioni sulle quali bisogna ragionare sono legate alla interconnessione. Come le persone, pur vivendo nei luoghi, possano uscire dalla trappola locale; come i produttori, pur producendo nei luoghi, possano trovare spazi di mercato sovralocali. Come gli stessi luoghi possano mettersi in rete, passando da spazi periferici rispetto a reti globali a nodi di nuovi centri che si interconnettono tra loro. Perché i luoghi trovino nuovi spazi di connessione con altri luoghi o con i flussi, vedo almeno tre punti di attacco: il primo è la lotta al digital divide, perché senza l’infrastruttura di base sulla quale si fonda il modo di produzione informazionale, le aree interne non entrano proprio nella partita. Questo ha ricadute sui servizi che possono viaggiare nella rete, sulla possibilità di accesso e scambio di informazioni, sulle modalità di stare su mercati lunghi. E qui si apre il secondo punto, il mercato. Per le aree interne vedo la necessità che le due modalità di organizzazione alternative al mercato, stato e reciprocità, riprendano forza grazie alle politiche pubbliche. Per carità, chi fa economia nei luoghi può e deve trovare autonomamente spazio nel mercato. E molti già lo fanno, nella loro intrapresa individuale. Ma lo fanno coniugando elementi di mercato con elementi di reciprocità. E perché ciò avvenga a livello territoriale, ad un livello nel quale più esperienze individuali si aggregano, è necessario che vi sia un intervento delle politiche pubbliche. Mi spiego. Nelle aree interne in particolare, esistono molte opportunità di fare impresa, data la grande diversità che le caratterizza e perciò l’ampia offerta di prodotti per un mercato che sempre più si caratterizza per distintività nei consumi. Le dimensioni, i costi di produzione, le condizioni ambientali fanno sì che i prodotti delle aree interne non possano andare sui mercati indistinti, dove a guidare domanda e offerta sono i prezzi imposti dalla grande distribuzione. Ma non riescono nemmeno a fare il salto di scala necessario, soltanto attraverso le filiere alternative dell’economia solidale, del Km0, del rapporto diretto tra produttori e consumatori. È necessario capire come aggregare l’offerta – una pluralità di piccoli produttori – con una domanda dispersa, composta da consumatori riflessivi. Qui entra in campo la reciprocità: come creare mercati capaci di remunerare adeguatamente i prodotti, premiando i significati che vi sono depositati (qualità, salute, ambiente, identità, solidarietà), dove la logica dello scambio non è soltanto determinata dal prezzo di mercato, ma è intrisa di relazioni. Ci insegnano molti casi nel mondo, che perché questi mercati si strutturino, gli studiosi li chiamano mercati nidificati (nested markets), bisogna creare contesti istituzionali e relazionali capaci di incorporarli. C’è bisogno di intermediari nuovi, che restino sotto il controllo di chi produce e di chi consuma. Perché ciò accada, sono necessarie le politiche. Chi fa le politiche, può acquisire le conoscenze necessarie per costruire dei meccanismi che ne agevolino la strutturazione soltanto estraendo competenze dalle pratiche innovative da chi produce, chi consuma e chi intermedia in modo nuovo. E qui conta la postura con la quale il pubblico, le amministrazioni, si pongono nei confronti delle persone e dei territori. Mettersi in ascolto, innanzitutto, selezionando i propri interlocutori sulla base delle competenze e della capacità di innovare, e ricombinando e compenetrando i sistemi di relazione nel locale e tra luoghi e flussi.
Lo stesso vale per i servizi alla popolazione (terzo punto). La Strategia Aree Interne ha uno dei suoi elementi di innovatività nel lavorare contestualmente sui diritti e sul mercato. Non è pensabile immaginarsi nuova impresa nelle aree interne senza una adeguata offerta di servizi alla popolazione. Nel lavoro di campo abbiamo raccolto tanti casi dove, nonostante un interessante sviluppo turistico che ha portato alla crescita del numero di imprese, questo sviluppo non si è tradotto in residenzialità. Gli stessi imprenditori turistici, di fronte a servizi carenti per i propri famigliari (ad esempio mobilità e scuole), abitano nei centri di fondovalle e risalgono le valli per andare al lavoro. In questi contesti non è pensabile organizzare i servizi secondo i criteri delle città. C’è bisogno di innovazione sociale, di interazione spinta tra pubblico, impresa sociale e forme di impresa comunitarie. Nuovi assetti di welfare emergenti, per i quali le istituzioni devono aprirsi alle competenze diffuse nella società.
Spesso si tira in ballo il ruolo negativo delle politiche europee rispetto al mancato riconoscimento delle esigenze dei territori, spesso peraltro molto diverse tra loro. Quanto le politiche UE sono state “cieche” e quanta responsabilità hanno invece, nel caso dell’Italia, le amministrazioni nazionali e locali?
Non sono in grado di dire quale sia il livello amministrativo più cieco rispetto ai luoghi. Una cosa che ho imparato, è che non contano soltanto le strutture amministrative, ma anche le persone che ci stanno dentro. Nella classe dirigente pubblica ci sono persone che innovano dentro la macchina, forzando le regole rigide per piegarle ai luoghi, e persone che non vedono, e come dice Saramago “persone che pur vedendo, non vedono”. I primi sono gli alleati necessari per combattere le cecità delle politiche. Le modalità con le quali sono costruite le politiche di coesione e la loro gestione da parte delle Regioni, sono certamente cieche nei confronti dei luoghi. Le Regioni sono spesso più centraliste dello Stato, pensano di conoscere tutto perché più vicine ai luoghi, ma poi disegnano strumenti di programmazione totalmente inadeguati ai loro fabbisogni. Rispondono all’ideologia degli agglomerati, per la quale è più efficace concentrare la spesa nei grandi nodi urbani.
Non credo che il livello Europeo sia il primo responsabile di questa postura, perché le amministrazioni regionali hanno ampi margini di iniziativa per interpretare i regolamenti europei e applicarli, in una logica capace di valorizzare i fabbisogni dei luoghi. Lo stesso vale per le amministrazioni centrali. Pensiamo alla scuola, o alla dibattuta questione dei punti nascita. Lo Stato, dal centro, ignorando nella propria cultura amministrativa che regole uguali in luoghi diversi hanno risultati profondamente diversi, impone delle soglie minime di attivazione dei servizi. Per un istituto scolastico comprensivo ci vogliono almeno 400 alunni. Per un punto nascita bisogna raggiungere la soglia dei 500 parti l’anno, ritenuta necessaria per tutelare la sicurezza di madre e nascituro. Numeri impossibili da raggiungere nelle aree interne, al punto che nell’Appennino Reggiano c’è una mobilitazione popolare molto forte per la chiusura imposta del punto nascita di Castelnuovo Monti. Poi scopri che in Europa, nei Paesi con poca densità abitativa, il sistema sanitario pubblico lavora alla domiciliarizzazione del parto per portare il servizio vicino ai cittadini.
Per cambiare rotta e iniziare a rendere veramente i processi decisionali sui territori aperti ai cittadini ci vuole molto tempo, risorsa che sembra scarseggiare soprattutto nei contesti metropolitani caratterizzati da processi accelerati, ritmi frenetici e spesso alienanti. In questo senso è possibile che dalle aree interne, per un felice e inatteso capovolgimento, si possano sperimentare metodi applicabili anche nelle periferie urbane?
Trovo interessante la riflessione di Hartmut Rosa, studioso contemporaneo della Scuola di Francoforte, che si concentra proprio sull’accelerazione sociale. La tesi è che l’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione insieme alla ristrutturazione del capitalismo post-fordista abbiano prodotto una straordinaria accelerazione delle strutture del tempo nella società contemporanea. Esistono tre ambiti di accelerazione. L’accelerazione tecnologica, grazie alla quale lo spazio viene compresso o addirittura annichilito per effetto della velocità dei trasporti e delle comunicazioni. L’accelerazione dei mutamenti sociali, che porta gli atteggiamenti, gli stili di vita, le forme con le quali si attuano i rapporti di lavoro a cambiare sempre più rapidamente. L’accelerazione del ritmo di vita, che palesa la paradossale carestia di tempo nella quale è caduto il vissuto metropolitano. I tassi di crescita delle azioni, degli spostamenti, superano i tassi di accelerazione. Per questa ragione il tempo scarseggia sempre di più. Questo paradosso dell’accelerazione, si traduce in una nuova alienazione: dallo spazio; dalle cose; dal nostro agire; dal tempo esperito; dall’ambiente. L’accelerazione però assume connotazioni diverse nello spazio. Seguendo Rosa, le aree interne sarebbero spazi di decelerazione, perché disconnessi dalla rete globale dei flussi. Se questo è vero, le aree interne si trovano su un fronte propizio. Significa che da questi luoghi si può provare a costruire una risposta alla crisi del sistema dominante – alla crisi intrinseca del processo di accelerazione – rappresentato dalla “stasi frenetica”. È opinione diffusa, infatti, che a fianco della contemporanea velocizzazione e compressione del tempo, stiamo assistendo ad un irrigidimento culturale e strutturale della società. Una stasi paralizzante nello sviluppo interno della società contemporanea: la sua apparente sconfinata apertura e il suo rapido cambiamento sarebbero soltanto elementi esteriori (vapore), mentre le strutture profonde della nostra società (ghiaccio) sono coinvolte in un processo di irrigidimento e regressione. La sostanza dei rapporti di produzione e sociali resta immutata da molto tempo e la sua conservazione viene rafforzata dalla velocità di mutamento delle esteriorità di questi rapporti, dentro le quali ci stanno anche i ritorni regressivi alle identità particolari. La struttura del tempo delle aree interne, invece, dilatata ed estranea alle logiche di accelerazione, concede alla politica una possibilità di azione più incisiva, di imprimere il segno sulle dinamiche sociali, di ripensare i modi di produzione e di consumo, di aprire i processi decisionali, di sperimentare nuovi modi di co-progettare servizi alla popolazione, capaci di integrare stato, mercato e comunità. È nelle aree interne che nasce una genuina innovazione sociale, non funzionale alla stabilizzazione del sistema, ma al suo mutamento. In realtà, nella società dell’accelerazione c’è tanto tempo. Perché è una società che si muove freneticamente, ma che è ferma dal punto di vista dell’avanzamento sociale.
Lei si occupa anche di temi ambientali, che ormai sono entrati prepotentemente nel dibattito pubblico, considerate le evidenze dei cambiamenti climatici in atto e le previsioni non confortanti. Come si possono coniugare le politiche territoriali con un’attenzione all’ambiente che diventi strategica e non residuale?
Le aree interne sono state coinvolte da importanti progetti di decarbonizzazione del nostro sistema energetico. Pensiamo ai grandi campi eolici, ai parchi fotovoltaici a terra, alle centrali a biomasse. Progetti che spesso si sono tradotti in forme di green grabbing, una nuova forma di appropriazione delle risorse ambientali da parte di grandi corporations che, mosse dalle strutture di incentivi nazionali per la transizione energetica, si muovono nello spazio globale alla ricerca di risorse e aree sulle quali massimizzare il profitto. È un’altra chiave di lettura delle diseguaglianze materiali e di riconoscimento. Le aree interne sono pervase dalla sensazione di essere state derubate delle proprie risorse, a fronte di profitti che vanno altrove. Anche qui le èlite del nostro paese non hanno voluto vedere, derubricando come Nimby le opposizioni agli impianti. Opposizioni che, invece, hanno una matrice distributiva e degli elementi di riconoscimento. Anche in questo caso emerge come politiche ambientali cieche ai luoghi, dove i sistemi di comando, controllo e incentivo vengono pensati in modo territorialmente indistinto, provochino disconnessione oppositiva dei luoghi. Detto questo, la crisi ambientale genera una serie di vantaggi competitivi alle aree interne, che le politiche di sviluppo orientate ai luoghi dovrebbero cogliere. Esistono dimensioni locali e globali della questione ambientale. Partiamo da quelle locali. Per una volta, i problemi ambientali delle aree interne non sono determinati da sovrasviluppo, ma da abbandono. Questo è un fattore importante, perché ci dice che non esiste contraddizione tra uno sviluppo equilibrato e la conservazione e riproduzione dell’ambiente. In un territorio come quello Italiano, dove i beni ambientali si sono creati attraverso la co-evoluzione uomo-ambiente, è soltanto con la ripresa sostenibile della manipolazione della natura da parte dell’uomo che i problemi ambientali possono essere risolti. Nelle aree interne esistono conoscenze pratiche capaci di far fronte a problemi come la perdita di biodiversità, l’abbandono del bosco, i rischi frana e idraulico, le cicliche carenze idriche. Politiche orientate, mercati nested e interazione paritaria tra conoscenze locali e sapere esperto possono generare nuove economie multifunzionali, caratterizzate dalla circolarità della produzione e consumo rispetto ai cicli biologici. Perché si generino queste economie, c’è bisogno che si riconosca l’interdipendenza tra città e aree interne: i problemi ambientali che hanno origine a monte, hanno conseguenze disastrose per chi sta a valle. Chi sta a valle deve riconoscere il ruolo sociale di chi sta a monte, anche incorporando questo ruolo nel prezzo dei prodotti. Mi immagino ad esempio filiere locali del pellet, dove i consumatori sono disposti a pagare un prezzo leggermente più alto per avere materia prima che viene dai territori circostanti, partecipando così – come consumatori – alla manutenzione attiva del territorio.
Anche il cambiamento climatico, dimensione globale della crisi ambientale, può portare opportunità alle aree interne. Rispetto ai sistemi urbani, esse sono più resilienti all’incremento delle temperature. L’acutizzarsi del problema, può portare le persone a spostarsi dentro il territorio nazionale sulla base dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Città dove il caldo diventa insopportabile e aree interne dove ci si adatta meglio. Poi c’è il fronte della lotta al cambiamento climatico, delle energie rinnovabili fatte bene. Intendo non come nuova occasione di profitto per chi domina i flussi, ma come occasione per ridare fiato a economie locali pre-distributive. Le aree interne, se anche le politiche energetiche si piegassero ai luoghi, potrebbero riacquisire sovranità sulle proprie risorse, ponendosi in una logica di scambio con la città anche per quanto riguarda la fornitura di energia. Esistono già dei casi che ci indicano la direzione: le Madonie della sovranità energetica, la Valle Maira delle produzione di energia attraverso un partenariato pubblico-privato, il fotovoltaico a partecipazione popolare di Peccioli (Pisa), le cooperative energetiche storiche e quelle nuove, come www.enostra.it, che fornisce energia etica e sostenibile ai propri soci-consumatori.
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