Raccogliamo in questo spazio testi ed estratti di articoli che esprimono punti di vista interessanti sulle #sardine.
Giorgia Serughetti – ricercatrice
Sono stata in piazza con le sardine. Ci ero già stata a Torino, ma quella di Roma è stata impressionante, considerando la natura spontanea e dal basso del movimento. Un successo insomma. E in quella piazza credo di aver capito meglio il perché. Le sardine sono il controcanto identitario della politica identitaria salvin-meloniana. Dove questi pretendono la rappresentanza esclusiva di un “popolo”, le sardine offrono un’opportunità per dire “noi”, riconoscersi come simili, essere “l’altro popolo”, che è irriducibile alla narrazione populista e per ciò stesso la falsifica. Le sardine competono per il diritto agli stessi simboli (la bandiera, l’inno), sono patriottiche ma salde nei valori antifascisti della Costituzione. Forse le sardine rispondono al bisogno identitario su cui si gioca la politica del nostro tempo. Se è così, però, significa che non c’è un “popolo” in attesa che la sinistra offra le ricette giuste alla crisi economica e sociale (come del resto non è su quel terreno che la destra prende i voti). C’è, più forte, il desiderio di farsi popolo attraverso simboli e ragioni comuni. Ci piaccia o non ci piaccia. (E sempre che io non stia dicendo un mare di sciocchezze sul mare di sardine…)
Pesci giusti nel mare sbagliato
Giovanni Moro – sociologo
In questi giorni imperversano sui giornali e nei media le discussioni su cosa sono e su cosa dovrebbero fare i ragazzi-sardina e i molti che, un po’ ovunque in Italia, hanno raccolto il loro appello. Giornalisti più o meno acculturati, scienziati sociali sempre sul pezzo, politologi improvvisati, vecchie glorie del ’68 che non mancano mai, padri di fallimentari esperienze del passato, ex oracoli fuori moda, leader di micropartiti alla ricerca di un nuovo popolo, sono tutti lì a proporci una massiccia dose di parole in libertà. Le voci serie, che pure ci sono, rappresentano una quota decisamente minoritaria in questo coro.
Io non entro nel merito di questa discussione non solo perché la trovo stucchevole, ma soprattutto perché non ne so abbastanza e perché chi porta in piazza le persone – specialmente le persone normali – merita sempre rispetto e attenzione e mai presupponenza o paternalismo.
Voglio solo annotare la riduzione, che domina il dibattito in corso, della politica alla sua dimensione partitica ed elettorale. Come se le uniche forme possibili di rilevanza politica delle Sardine fossero la mobilitazione degli elettori per sé o per altri e la trasformazione in un nuovo partito o in una appendice di quelli che esistono.
È una visione molto primitiva e caricaturale della politica, quella che emerge. Essa riduce le possibilità del cittadino all’esercizio del voto e la stessa arena pubblica a stadio, o meglio a teatro in cui gli attori importanti non sono mai quelli della platea.
E invece bisognerebbe ricordare che l’inizio della fine della leadership di Berlusconi fu il movimento delle donne di “Se non ora quando”, che non spostarono nemmeno un voto ma delegittimarono uno stile politico che sembrava invincibile. E bisognerebbe anche non dimenticare che l’unica forma di partecipazione che è in crisi in Italia, dati alla mano, è quella ai partiti, mentre per il resto il nostro paese mostra una capacità di iniziativa civica rimarchevole anche se di solito del tutto autonoma dal sistema politico. Proprio il caso del movimento delle Sardine lo mostra.
C’è molta presunzione anche nelle domande che in modo pressante vengono rivolte a questo movimento: e ora che farete? Non lo sapete, ragazzi, che non basta protestare, che ora dovete dire qual è il vostro disegno politico e dovete misurarvi con le istituzioni, con la politica con la P maiuscola, ecc.? Sono domande che rientrano decisamente nel genere letterario della vecchia gag che si intitolava “Vieni avanti, cretino”.
E se le Sardine si limitassero invece a rendersi visibili? A materializzare la esistenza di un modo diverso da quello dominante (sia nella sua versione vincente che in quella perdente) di essere cittadini italiani? A incidere sul modo in cui il senso comune alimentato dai media rappresenta il nostro paese? Non sarebbe abbastanza? E, soprattutto, non sarebbe un ruolo altamente politico, compiuto in se stesso?
Sardine o bandiera rossa? Di sicuro antifasciste e antirazziste
Guido Viale – Il Manifesto
[…]
Ma si può identificare sentimenti e aspettative di piazze finalmente piene come queste con le idee di qualcuno dei loro promotori, che pochi conoscevano prima e molti non conoscono nemmeno ora? Per molti la “prova definitiva” è che lì non si vogliono le bandiere di partito né si può cantare Bandiera rossa. Proprio come nei cortei di Fridays for Future e di Nonunadimeno. Tutte queste mobilitazioni, proprio perché l’orientamento partitico dei e delle partecipanti è sconosciuto, e in molti casi indeterminato, o parecchio disorientato, sono un terreno di confronto e – perché no? – di scontro tra idee e prospettive diverse, e in alcuni casi anche opposte, in competizione per un’egemonia non scontata; idee e prospettive che devono anche ridefinirsi e riqualificarsi alla luce dei problemi e delle incomprensioni che emergono nel contatto con persone che non si incontrano più da tempo, o che mai si sarebbero incontrate altrimenti.
Questa è la grande occasione che le sardine offrono: smettere di parlarsi tra quelle e quelli che già si frequentano o incontrano spesso e sanno tutto uno dell’altra; avere un pubblico con cui mettere alla prova la propria capacità di farsi capire e di capire gli altri, quelli che non si sa più, o non si sa ancora, che cosa pensino.
Andrea Morniroli – articolo pubblicato su Repubblica Napoli il 5 dicembre 2019
Credo che ogni fatto politico vada letto nel contesto in cui nasce e per le sensazioni non solo razionali ma anche emotive che riesce a trasmetterti. Sabato sera in piazza, sardina tra le tantissime sardine, anche molto differenti da me, sono stato bene. Ho vissuto un momento politico sicuramente allegro, direi delicato, ma allo stesso tempo chiaro e netto nel collocarsi in alternativa a chi propone aggressività e odio, non solo come cifra della politica ma come cornice del modello di società. Non so se il movimento delle sardine diventerà qualcosa di più strutturato. Non so neanche se chi oggi propone questa istanza, non violenta e innocentemente democratica e per questo nuova e credibile più di altre, ha in testa o nei suo obiettivi di diventare qualcosa d’altro. Certo sarebbe importante trovare le forme e i modi per dare continuità e per iniziare a tessere relazioni e contaminazioni tra le tante soggettività individuali e collettive che stanno riempiendo le piazze italiane, ma allo stesso tempo vanno evitate in ogni modo forzature, scorciatoie o tentazioni di indicare ricette o strade da seguire.
Va raccolto e maneggiato con cura il valore prodotto da questo movimento scommettendo su una modalità politica e militante volutamente fisica e non virtuale. Anche perché so bene, come stiamo verificando a Napoli con #primalepersone la fatica che comporta il fare insieme quando si passa dall’essere contro qualcuno al provare a costruire in avanti qualcosa di alternativo. Ma al di la di quello che sarà il loro futuro, le donne e gli uomini che hanno dato vita alle sardine hanno già ottenuto un risultato concreto: quello di proporre un idea di populismo non di destra. Dove l’essere e farsi popolo significa recuperare la sfida di farsi carico della complessità, standoci dentro, riconoscendone tutta la bellezza e la fatica, fuori da ogni tentazione semplicistica o strumentale.
Quello delle sardine è un popolo democratico che si richiama ai valori costituzionali con uno specifico richiamo all’art. 3 della Costituzione. Che si riconosce in un’idea di comunità solidale; nell’amore per l’ascolto; nella nonviolenza; nel mettere al centro le persone e i loro i diritti. Penso, che più di interrogarsi su quale sarà il loro futuro sarebbe meglio capire come l’atteggiamento politico che le sardine propongono possa diventare stimolo per innovare e aggiornare le altre pratiche politiche, sia nelle forme più tradizionali, sia in quelle più informali e legate al fare e al civismo attivo. Come quel metodo di fare politica, orizzontale e istintivo, dal basso e partecipato, nuovo per linguaggi e forme può aiutarci, in primis, a ritrovare legami con quelle parti del paese più arrabbiate e per questo attratte dal rancore piuttosto che dalla cura; dall’uomo forte piuttosto che dalla pazienza necessaria alla democrazia.
Mai come oggi le sinistre e più in generale chi si riconosce in un campo democratico e progressista deve porsi in ascolto e osservazione. Anche per questo trovo davvero insensati, e per molto versi insopportabili, quelle e quelli che a sinistra, spesso dall’altare delle loro sconfitte, come dice bene Marco Revelli: “Arricciano il naso e alzano il dito, per denunciare i limiti. Quelli che ogni volta fanno l’esame del sangue ai nuovi venuti, per verificarne i quarti di nobiltà, di purezza ideologica, di esaustività del programma, di efficacia del progetto”. Quello che serve oggi a tutte e tutti noi è l’esatto contrario. Serve mettersi in gioco davvero, rivendicando fino in fondo i nostri valori e i nostri contenuti ma anche con la piena consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre insufficienze.
Partecipiamo senza tentazioni invasive o di mettere cappelli al movimento delle sardine, a partire dalla piazza del 14 dicembre. A questa forma un po’ ibrida e irriverente di politica ma che sembra aver colto bene un esigenza diffusa di tornare a fare sentire la voce di chi in questo paese non ci sta ne’ alla deriva autoritaria, né a considerare normali le disuguaglianze e i poveri colpevoli della loro condizione. Che ci aiuti a non rassegnarsi a forme di politica schiacciate sulla sola gestione dell’esistente e che per questo hanno finito per perdere ogni attrattiva perché prive di sogno e visione.
Questo non è un editoriale sulle sardine
Giuliano Santoro – Jacobin Italia
[…]
La mareggiata trascina parecchi luoghi comuni. Di fronte ad anni di bombardamento mediatico e regressione culturale che hanno prodotto il ciclo reazionario di questi anni, qualcosa si muove. Solo chi si è rintanato dentro le mura rassicuranti e/o anguste della propria appartenenza immagina che lì fuori ci sia una società soltanto incattivita, preda inerme della Bestia salviniana o delle sirene sovraniste, delle semplificazioni delle destre e della paranoia dell’invasione. Non si tratta di ostinarsi a essere ottimisti, bensì di osservare come lì fuori, appena dietro lo schermo dal quale state leggendo queste parole, si gioca ogni giorno una battaglia.
È un conflitto che bisogna imparare a riconoscere e che riguarda innanzitutto le forme di vita, il modo in cui si convive dentro un’aula scolastica o si condivide un muretto, investe le dinamiche di potere quanto le relazioni orizzontali. Siamo davanti a un fenomeno ciclico che ogni volta si presenta in forme inedite, adatte al contesto: i più giovani non si fidano di chi è più grande di loro. Ci sono generazioni che hanno poco a che spartire con le paure che diffonde Salvini, che altro non sono che la versione 2.0 delle angosce di un vecchio bacucco alle prese con la modernizzazione della società. Una volta i matusa avevano paura delle minigonne e dei grammofoni, indice del panico morale col quale si manifestava il timore dello sgretolamento della società, oggi i boomer si fanno contagiare dalle emergenze artificiali costruite ad arte per comandare e costruire gerarchie. Salvini sa bene che tocca corde tutt’altro che accattivanti, che rimastica la solita vecchia solfa reazionaria. Per questo fa di tutto per apparire smart, per svecchiare la sua immagine e darle un tono vissuto e giovanilistico: da qui derivano le patetiche scenette del Papeete o le imbarazzanti messe in scena gastronomiche via social.
Questa nuova generazione e la ricchezza delle sue relazioni sociali e affettive eccedono Salvini, non si limitano a contrastarlo ma lo oltrepassano, lo considera come un oggetto estraneo e incompatibile con il consesso della vita in comune, ricade in forme spurie, non lineari e irriducibili a sintesi politica definita, nelle piazze che contestano il leader leghista. Si dirà che questi eventi rischiano di essere soltanto mediatici, speculari alle messe in scena dell’ex ministro dell’interno. Il rischio è concreto, ma finora le piazze hanno incarnato l’incrocio tra reale e virtuale col quale sono fatte le nostre vite.
Contro le passioni tristi, le sardine urtano il populismo
Marco Bascetta – Il Manifesto
[…]
La “massa critica” delle sardine non avanza, per il momento, rivendicazioni. Né di natura economica, né di carattere politico. Non si pretende un movimento degli “onesti” contro i corrotti, non invoca manette o punizioni esemplari come gli indignati dell’epopea antiberlusconiana. PRESUMIBILMENTE perché percepisce che su quella strada non si spezza il clima risentito e vendicativo al quale ci si intende ribellare. Assai più probabilmente si finirebbe col rafforzarlo. Nemmeno si manifesta come una forma di patriottismo costituzionale. Intuendo, forse, che alla Costituzione non si può chiedere di liberarci di tutti i veleni che circolano nelle vene della società italiana. Crea però un luogo politico in cui sensibilità consonanti convergono dando vita, come testimoniano i volti, le parole e le immagini, a momenti di “felicità pubblica”. Costituisce una presenza collettiva che si vuole immediatamente significativa e crea così un ambiente all’interno del quale azioni e idee possono svilupparsi. In quali forme e con quale radicalità sarà l’impatto con i poteri dominanti a determinarlo. Le sardine sembrano nuotare, intanto, nelle acque di un senso comune da sovvertire e ricostruire, della contrapposizione culturale. Non in quelle dei programmi, delle piattaforme e delle indicazioni politiche.
Sardine, ovvero l’innocenza necessaria
Marco Revelli – Volere la luna
[…]
Sono, come chiamarli?, “popolo”. Una moltitudine che si addensa e riconosce in base a un comune sentire, a un segnale d’allarme. Alla sensazione di un pericolo imminente. E insieme di uno stato di cose insopportabile. Si mobilitano secondo una sequenza assai simile a quella del sistema immunitario di un organismo: come sciami di anticorpi in risposta in qualche modo istintiva, o automatica, di fronte ai sintomi avvertibili di una grave malattia. Quello che li unisce, tagliando orizzontalmente e verticalmente l’eterogeneità, è un set, non vastissimo, ma fondante, di VALORI (che sono poi quelli della nostra Costituzione), ritenuti irrinunciabili perché considerati indispensabili al proprio sentirsi “popolo”.
E, se devo dirla tutta, credo che il loro grande, davvero grande, merito sia proprio quello di aver fatto materializzare, nel luogo pubblico per eccellenza, in piazza, un popolo altro rispetto a quello rivendicato dalla retorica populista. L’anti-salvinismo di questo fenomeno sta nell’aver mostrato al mondo che il Capitano non ha il monopolio del “popolo”. Che l’Italia non è di Matteo Salvini. Che c’è anche un’Altra Italia, grande, coesa, determinata, corporea, fatta di persone in carne ed ossa che scoprono di essere, nonostante tutto, una Comunità vivente, operosa e capace di testimoniare i propri valori. Basta questo per decretarne la positività e la grandezza.
So che poi ci sono – ci sono sempre – quelli che arricciano il naso e alzano il dito, per denunciare i limiti. Quelli che ogni volta fanno l’esame del sangue ai nuovi venuti, per verificarne i quarti di nobiltà, di purezza ideologica, di esaustività del programma, di efficacia del progetto.