“La meritocrazia non è la soluzione alla crescente disuguaglianza ma piuttosto la sua radice…. La lotta contro l’ingiustizia richiede di resistere alla visione meritocratica stessa.” Questa affermazione sintetizza in poche parole il punto fondamentale del nuovo libro di Daniel Markovits, The Meritocratic Trap (Penguin Press, 2019). Il libro ha ricevuto molta attenzione nella discussione pubblica internazionale. L’autore insegna a Yale e l’attacco colpisce un valore, il merito, che da secoli siamo soliti invocare per giustificare le disuguaglianze accettabili. Ebbene, secondo Markovits, si tratterebbe di una mera mistificazione: la meritocrazia è il nemico oggi da battere. Nelle sue parole, la meritocrazia, “presentandosi come via per fornire pari opportunità, ha preventivamente fermato possibili critiche; spinge la disuguaglianza a livelli sempre più elevati; serve come meccanismo efficiente per l’eredità, piuttosto che per il ribaltamento del privilegio; e trasforma anche il numero relativamente ridotto di coloro che da essa traggono beneficio in maniaci del lavoro miserabili e incessanti, che devono spendere la maggior parte dei loro redditi elevati nelle scuole private e nei tutor dei loro figli” (trad. mia).
Vediamo la tesi un po’ più nel dettaglio. Da un lato, grazie all’importanza attribuita alla bravura e alla presenza di gare aperte a tutti coloro che vogliano parteciparvi, la meritocrazia rappresenterebbe uno strumento potente di legittimazione dei super-stipendi oggi offerti nel mercato. Si consideri, ad esempio, un laureato dalla scuola di legge di Yale. Entrare in tale scuola richiede di superare un processo di selezione reso sempre più duro dalla globalizzazione e dallo sviluppo dell’economia della conoscenza che hanno portato rispettivamente ad accrescere il numero dei concorrenti – basti pensare agli indiani e ai cinesi – e il valore dell’istruzione. Coloro che entrano saranno, dunque, fra i più bravi. Chi si diploma, poi, avrà beneficiato di una delle migliori esperienze di studio al mondo. Ma non basta. Una volta terminata l’Università, il mercato del lavoro richiede di partecipare a altre gare, anch’esse assai dure. Anche gli studi legali possono, infatti, attingere dal pool dei migliori talenti al mondo e avranno tutto l’interesse a reclutare i talenti migliori per cercare di vincere la concorrenza globale fra studi alla quale anch’essi sono sempre più esposti. Alla fine, piccole differenze di talento si assoceranno a differenze formidabili nelle remunerazioni, ma nessuno potrà negare il merito di chi vince. Il problema è che, a fronte di una élite di vincenti, “la maggioranza sarebbe spinta al margine della loro società”, verso lavori sotto-qualificati e sottopagati. E non potranno lamentarsi. Nella gara meritocratica, chi vince è il migliore e loro non hanno vinto.
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Menabò n. 117/2019