Un’analisi e una riflessione del Direttore Generale del Centro Studi delle Camere di Commercio “Guglielmo Tagliacarne” (una versione breve di questo articolo è uscita sul quotidiano Domani il 1° agosto 2022)
In una società basata sulla diffusione della conoscenza l’essenziale contributo del sistema universitario deve interagire fortemente con il sistema delle imprese e quello istituzionale, come sottolineato fin dagli anni Novanta dall’approccio delle “tripla elica” di Henry Etzkowitz e Loet Leydesdorff [1].
Ma come questi aspetti si intrecciano con l’obiettivo di una maggiore equità e riduzione delle disuguaglianze? Il dibattito avviato dal “Forum Disuguaglianze diversità”[2] con l’ANVUR e il sistema universitario sulla Valutazione della Qualità della Ricerca della cosiddetta “Terza Missione” delle Università, presenta al riguardo diversi aspetti di innovazione, laddove inserisce sia nuovi ambiti di intervento che la valutazione dei “principi di equità e parità di opportunità, l’obiettivo di ridurre condizioni di ineguaglianza e la valutazione anche di contributi di natura indiretta dell’azione universitaria”.
Un tradizionale aspetto della Terza missione è la diffusione dell’innovazione tecnologica che però, sotto alcuni aspetti, potrebbe paradossalmente contribuire all’aumento della disuguaglianza tra imprese e alla costruzione di rendite, se non assicura la parità di accesso ai processi di innovazione, in particolare delle imprese micro e piccole che dispongono di risorse limitate al riguardo e bassissima possibilità di accedere a tecnologie di frontiera.
Da questo punto di vista la tradizionale logica del “trasferimento”, sotto forma di brevetti e più in generale di proprietà intellettuale, rischia quindi di inserire ulteriori fratture, nella misura in cui si dirige verso le aziende più grandi. Secondo un’analisi dell’Istituto Tagliacarne[3] più dei due terzi della produzione e dell’utilizzo della proprietà industriale si concentra nelle imprese sopra i 50 dipendenti, e riguarda solo il 6% di quelle fino a nove addetti. Del resto è la stessa logica del trasferimento, nella sua linearità, ad essere limitativa, perché in genere comporta un vantaggio di produttività per l’impresa destinataria, ma non stimola necessariamente relazionalità e connessioni con le altre imprese e l’ambiente di riferimento.
E’ singolare verificare che mentre l’approccio delle Tre (o n)[4] eliche pone al centro l’interazione/integrazione tra i diversi ambiti (università, imprese, istituzioni e società civile, ancora oggi si fa fatica ad inserire una piena valutazione della relazionalità con le imprese e il sistema istituzionale. Si pongono quindi almeno due questioni: una di tipo tecnico-valutativo e l’altra di tipo contenutistico relativa al tipo di innovazione da favorire per sviluppare un approccio che tenga insieme sviluppo ed equità.
Dal primo punto di vista serve che gli innovativi criteri di valutazione messi a punto dall’ANVUR, insieme alla definizione avanzata di dieci campi di attività, si riflettano pienamente poi negli indicatori utilizzati per la loro misurazione in termini di valutazione[5]. Perché se alla fine si continuano ad utilizzare solo indicatori quantitativi di “realizzazione”, che contano il numero delle iniziative o dei destinatari, il rischio è che vengano trascurati i più generali effetti di impatto di queste azioni (anche dal punto di vista qualitativo), contraddicendo proprio il nuovo approccio.
Ma forse il punto più rilevante riguarda le tipologie di innovazione da favorire per uno sviluppo che sia condiviso e quindi anche socialmente sostenibile.
La condivisione comporta relazionalità tra i diversi attori del processo, che deve accompagnarsi anche a una adeguata azione di accompagnamento, di orientamento e decodifica dei bisogni imprenditoriali: una recente analisi condotta da Dintec-Unioncamere[6] ci dice che per il 64% delle pmi il principale ostacolo all’innovazione non sono le risorse, bensì le difficoltà di sapere cosa e come farla.
Utilizzando la tassonomia di Brynjolfsson e McAfee[7] sulle diverse forme innovazione che entrano nel “capitale intangibile” vediamo che la modalità più aperta e relazionale è quella dell’open innovation, ossia le attività di innovazione collaborativa realizzate attraverso progetti di co-innovazione con università, sub-fornitori e consumatori.
Questa forma di innovazione, attua una sorta di “osmosi inversa” (utilizzando una felice espressione di Giovanni Cannata), cioè un passaggio dall’organizzazione “più densa” di esperienze e pratiche (cioè l’impresa) a quella “meno densa” (di pratica operativa, anche se capace di produzione tecnologica, ossia l’Università) mediante un percorso di condivisione che parte dalle esigenze aziendali.
Secondo un’analisi del Tagliacarne questa formula di innovazione è in primo luogo meno concentrata e più diffusa rispetto alle altre nelle micro-imprese, in quanto è segnalata dal 22% delle aziende sotto i 9 addetti. Per le imprese minori rappresenta anche una vera e propria sorta di push factor rispetto alle aziende di maggiori dimensioni[8]. Inoltre stimola anche comportamenti aziendali più attenti alla socialità: le imprese che fanno open innovation realizzano investimenti nel welfare aziendale nel 58% dei casi contro il 38% di quelle che non la fanno, sono più attente agli investimenti a favore del territorio e delle comunità nel 38% dei casi contro il 18% delle altre, collaborano con il terzo settore nel 35% delle situazioni contro il 19%, e hanno anche una più diffusa coscienza green nel 57% dei casi contro il 36%.
Tutto questo si traduce in maggiore resilienza di queste imprese che si orientano verso lo strumento digitale in particolare per aumentare la flessibilità nell’organizzazione dei propri processi e presentano una più diffusa capacità a superare nel 2022 livelli produttivi pre-covid (35% contro 23% di chi non fa open innovation).
In sintesi l’open innovation è una formula che sottolinea la capacità di una Terza missione più attenta all’impegno civile e si presta a realizzare un vero e proprio “spazio di consenso per l’innovazione”[9] attraverso l’interazione tra imprese, università, istituzioni e società civile, anche con la creazione di istituzioni ibride, proprio superando un processo di trasferimento strettamente guidato dalle anguste logiche di mercato, e lavorando sul mutuo arricchimento attraverso la valorizzazione dei network istituzionali e della società civile[10]. Richiamando Andrea Bonaccorsi questo tipo di innovazione si trova a metà strada tra la produzione di beni privati (come nel caso dei brevetti) e quella di beni pubblici[11] (l’eco-sistema di riferimento[12]).
Le implicazioni per il processo di innovazione sono il superamento della logica lineare del trasferimento in favore di una “circolare” di condivisione; l’identificazione e misurazione (anche qualitativa) degli effetti indiretti di questo processo che tengano in conto il mutuo arricchimento tra le diverse componenti (eliche?); la valorizzazione anche delle azioni di animazione e di affiancamento alle imprese (attraverso il contributo di soggetti/istituzioni che svolgono una attività di decodifica dei fabbisogni imprenditoriali).
Il tutto richiede un processo partecipato anche per la misurazione degli impatti che rende quindi, anche da questo punto di vista, “sociale” la valutazione e rappresenta uno stimolo per identificare indicatori quali-quantitativi di misurazione dell’impatto di queste iniziative.
Un aspetto di positiva prospettiva al riguardo, anche in termini di lungimiranza dei nuovi criteri di valutazione, è l’esplicita considerazione della valutazione da parte dell’Anvur[13] degli strumenti innovativi a supporto dell’open science: una previsione che sicuramente va nella linea della valorizzazione degli aspetti di open innovation e quindi anche dell’impatto sociale delle attività della Terza missione.