Quando parliamo di transizione ecologica il ruolo delle città é cruciale. Ne scrive Edoardo Zanchini, direttore dell’ufficio clima del Comune di Roma, per una riflessione sulla scia dell’intervista di Fabrizio Barca a Charles Sabel e Rossella Muroni pubblicata su L’Espresso il 3 novembre scorso.
Poi c’è la dimensione globale. Sabel, oltre a proporre di rafforzare l’Accordo di Parigi come «fonte di autorità e sanzione di ultima istanza», plaudite al farsi avanti di «accordi plurilaterali aperti» fra gruppi di Stati in specifici settori per stabilire standard condivisi e tutelare le imprese dalla concorrenza al ribasso. Ma non rischiano di produrre contrapposizioni belligeranti fra blocchi di Paesi, attorno a Cina e Usa?
Rossella Muroni: «Conta anche la cooperazione fra città del mondo. Se si traduce nella domanda di beni collettivi (mezzi pubblici di trasporto, apparecchiature ospedaliere, cibo per mense pubbliche), possono orientare sia i mercati sia la cooperazione fra Stati».
Dall’intervista di Fabrizio Barca a Charles Sabel e Rossella Muroni pubblicata su L’Espresso il 3 novembre.
Se vogliamo fare un paragone storico, le città si trovano oggi di fronte a una sfida paragonabile a quella che nell’Ottocento le vide protagoniste nel definire un progetto di trasformazione urbanistica e sociale come risposta ai problemi senza precedenti che la rivoluzione industriale le poneva di fronte. Come ieri è stata la capacità di stare dentro un dibattito alto, trasversale e internazionale sul tema dei diritti delle persone, della dignità delle condizioni di lavoro e di vita, sul come le grandi scoperte tecnologiche e le innovazioni industriali potevano essere poste al servizio del bene collettivo, oggi ci troviamo di fronte a una sfida per molti versi analoga.
Se allora furono la costruzione di migliaia di scuole, ospedali, alloggi per i lavoratori, delle prime ferrovie urbane a definire l’immaginario di una città che aveva una precisa idea politica di cambiamento e con un chiaro blocco sociale a spingerla, contro la tesi che certi costi sanitari e sociali fossero l’inevitabile scotto da pagare allo sviluppo industriale, oggi abbiamo bisogno di capire che serve altrettanta visione e capacità di costruire alleanze. Soprattutto, non dobbiamo proprio ora fare passi indietro di fronte alla campagna in atto contro la transizione ecologica, al tentativo di demolire quanto costruito in questi anni a livello europeo e in tante esperienze locali.
Dobbiamo scongiurare questo errore, anche perché i nostri avversari non hanno uno straccio di idea in mano che possa essere convincente, credibile se non quella di insistere sui pericoli di scelte che per fermare i cambiamenti climatici rimettono in discussione l’organizzazione della mobilità, del modo di produrre energia, che puntano a definire nuovi modi di vivere piazze, strade, spazi pubblici. Quello che si vuole impedire è che questi processi di trasformazione oramai ineludibili accelerino, fino a mettere in pericolo rendite gigantesche, e diventare qualcosa che va oltre la semplice risposta a un problema di emissioni inquinanti e climalteranti.
Al limite si è disponibili ad accettare che progressivamente vi sia un cambio di modello tecnologico, con una crescente diffusione di pannelli fotovoltaici, impianti eolici, auto elettriche, sistemi di accumulo. Ma guai a rimettere in discussione un modello economico e di potere, pronto a difendersi con le unghie e con i denti con campagne precise per demolire idee e proposte, come abbiamo visto con gli attacchi alla città dei 15 minuti, alla mobilità elettrica, a modelli innovativi di recupero sociale e riappropriazione di spazi e edifici abbandonati.
È dunque il guardare oltre quel limite la sfida oggi più importante e affascinante. Perché sono tante le città che stanno ridisegnando con successo la mobilità restituendo lo spazio pubblico agli spostamenti a piedi e in bici, che puntano a garantire una migliore accessibilità attraverso il mix di trasporto pubblico su ferro e servizi sempre più articolati di mobilità condivisa. Che stanno portando avanti progetti che dimostrano come sia oggi possibile riqualificare, costruire e ricostruire case a emissioni e bollette zero, in cui la poca energia di cui si ha bisogno è prodotta all’interno di sistemi efficienti dove si condivide quanto prodotto da impianti solari sui tetti degli edifici pubblici e privati. E che proprio le città possono diventare una incredibile miniera di materiali da recuperare, riusare, riciclare in forme sempre più articolate e capaci di muovere idee e ricerca, di creare nuovo lavoro. E non è vero che dobbiamo essere fatalisti rispetto a impatti sempre più devastanti di ondate di calore, piogge violente e siccità, possiamo adattare e riqualificare gli spazi delle città e renderli più ospitali e vivibili.
Gli esempi sono oggi innumerevoli, le storie di successo spaziano da imprese a cooperative, da comunità di cittadini a gruppi sociali organizzati, centri grandi a piccoli, in ogni parte d’Europa e del mondo. Dove sta la sfida politica oggi? Come nell’Ottocento nel coagulare queste iniziative, questi interessi in un progetto chiaro di cambiamento e in un racconto di futuro desiderabile. Un’alleanza tra mondo del lavoro, amministratori locali, attivisti, creativi, imprenditori. Perché le città non ce la possono fare da sole di fronte allo scenario climatico che ci aspetta, ai processi migratori e senza investimenti all’altezza delle sfide e di fronte a una finanza che ha priorità che vanno in tutt’altra direzione. Per tornare all’attualità, la campagna elettorale per le elezioni europee deve avere proprio questo salto dell’ambizione al centro del confronto. In questi anni i due processi hanno viaggiato in parallelo: da un lato le politiche europee sul clima con nuovi e più ambiziosi impegni, che ora si vorrebbero rimettere in discussione, e dall’altra le città che hanno provato a definire una traiettoria di cambiamento tra enormi problemi di risorse da reperire e di consenso da costruire sui progetti di trasformazione nei quartieri. Ora le due traiettorie si devono incrociare, nel confronto pubblico e nelle decisioni politiche sulle priorità di investimento per fare in modo che le aree urbane diventino il laboratorio di una transizione ecologica e sociale accessibile per tutti e replicabile in ogni parte del mondo.
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