Quanto conta la politica industriale nella transizione ecologica? Qual è la direzione dell’Italia? Ne scrive Francesco Ferrante, Vice presidente di Kyoto Club, nel ciclo di riflessioni che il ForumDD ha elaborato per approfondire i temi e le questioni legate alla transizione energetica giusta e alle strade per realizzarla sollevati dall’intervista di Fabrizio Barca a Charles Sabel e Rossella Muroni pubblicata su L’Espresso il 3 novembre scorso
Eppure, il fermento innovativo che avete incontrato negli incontri in Italia è significativo. Riguarda imprese, cittadinanza organizzata, movimenti, sindacato. Sono esperimenti diffusi di quel confronto pubblico-privato-sociale sull’attuazione concreta della trasformazione che Fixing the Climate propone, la condizione perché essa produca un’organizzazione più giusta di vita e lavoro. Ma non trovano udienza presso il sistema politico e istituzionale. Di fronte a questa sordità che può fare quel fermento?
Chuck Sabel: «Le imprese verdi innovative con risorse finanziarie e tecniche sufficienti a reggere nelle forti turbolenze di ogni trasformazione devono “solo” trovare il coraggio di tenere botta: prima o poi ce la faranno. Per le altre, con esperienze più piccole e vulnerabili, la carta è un riconoscimento a livello di sistema che consenta di generalizzarle e di piegare a loro misura regole e politiche».
Rossella Muroni: «Quelle esperienze, per pesare, devono fare rete fra loro. Ciò chiede una trasformazione dell’associazionismo di imprese e lavoro che non si posizioni sull’interesse più ricorrente (e dunque conservatore) fra i rappresentati, ma sugli interessi più innovativi, perseguendoli a misura dei contesti».
Chuck Sabel: «E se non succede, che quelle punte avanzate si facciano avanti e si alleino fra loro!».
Dall’intervista di Fabrizio Barca a Charles Sabel e Rossella Muroni pubblicata su L’Espresso il 3 novembre.
Quale ruolo può giocare il sistema industriale nella transizione ecologica? Penso che nel nostro Paese in molti a sentirsi rivolgere questa domanda quantomeno alzerebbero scetticamente il sopracciglio. E in effetti la rappresentanza di interessi molto spesso è sembrata giocare “contro”: persino il Green Deal dell’Unione Europea – proposto da una Commissione a guida della moderata popolare tedesca Ursula Von Der Leyen – è stato additato dalla Confindustria nostrana a più riprese quale “piano ideologico”, come se fosse stato messo a punto da una banda di fanatici ambientalisti che avevano preso il potere a Bruxelles nel 2019. In Italia la narrazione mainstream sembra ignorare che la scelta di politica industriale che punta sul “green” è invece l’unica che può assicurare un futuro competitivo all’industria europea se non si vuole rincorrere il resto del mondo in una folle svendita di diritti e di riduzione del costo della manodopera. Solo puntando su innovazione, know how tecnologico, legami con il territorio, difesa del sistema di welfare, lotta alle diseguaglianze abbiamo qualche speranza di tutelare il nostro benessere collettivo.
La cosa sorprendente però è che, nonostante la miopia e a volte la sordità della classe dirigente nostrana, sono molte le imprese e interi settori della nostra economia che questa scelta “social green” o l’hanno già fatta o la stanno facendo. L’osservatorio del Kyoto Club (i cui soci sono appunto imprese che hanno considerato la questione ambientale, non soltanto un vincolo ambientale, ma una straordinaria occasione di sviluppo, economia, occupazione) è prezioso da questo punto di vista. Ma sono numerose le aggregazioni di imprese anche di eccellenza – dalla Fondazione sviluppo sostenibile a Symbola – che raccolgono best practices che dovrebbero essere il modello cui l’intera economia potrebbe ispirarsi. D’altra parte se non fosse così non sarebbero possibili “record europei” (e quindi mondiali) come quello che possiamo vantare sul riciclo – sorprendente dato che ancora abbiamo negli occhi le emergenze delle nostre città. Oppure che anche sull’intensità energetica (la quantità di energia consumata per unità di prodotto) siamo tra i primi in Europa. Parametri assai importanti dato che non è pensabile alcuna transizione energetica che non metta al primo posto l’efficienza energetica e che l’economia circolare è essenzialmente l’uso efficiente della materia prima.
Parametri in cui il sistema industriale italiano è sempre stato forte, ma che oggi presenta velocità assai diseguali. Mentre infatti diventano più numerose le imprese – piccole e medie come quelle più grandi – che puntano su quelle eccellenze, il gap della media generale rispetto ad altri paesi europei che facevano peggio tende a ridursi e quello rispetto a quelli che ci stanno avanti tende ad aumentare. Il motivo è che nel nostro Paese si allarga la forbice tra comportamenti individuali – dei cittadini, ma appunto anche di tante imprese – e le politiche scelte dai Governi. Come invertire il trend? Dando più “rappresentanza” a quelli che scelgono “to go green” (che spesso sono proprio le imprese più legate ai territori e alle comunità dove insistono), raccontarli di più come per esempio proviamo a fare noi (grazie anche alla promozione che ne fa Alessandro Gassmann) con i nostri greenheroes (ormai più di 150 imprese di ogni dimensione di questo tipo) o come fa la Rete di Next – Nuova Economia. Non siamo più nicchie ma non ancora in grado di essere “rappresentanza generale” di nuovi interessi più “giusti” e che possano assicurare futuro: questa la sfida che ci attende.
Foto di Anton Maksimov 5642.su su Unsplash