Grazie a Fulvio Esposito, già Rettore dell’Università di Camerino, e a Giacomo Gabbuti, Ricercatore in storia economica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, entrambi membri dell’Assemblea del Forum, ricostruiamo i punti salienti del ddl Bernini pericoloso per la tenuta e la qualità dei nostri Atenei e per le giovani generazioni che vogliono lavorare nella ricerca e diamo conto dell’ampia mobilitazione in corso per fermare questo disegno neoliberista
Sin dal primo lavoro importante del Forum Disuguaglianze e Diversità, ovvero il Rapporto “15 Proposte per la giustizia sociale”, abbiamo messo al centro di una strategia per la riduzione delle disuguaglianze in Italia proprio le Università e i centri di ricerca spinti verso una direzione lontana dalla giustizia sociale, e valutati solo per la capacità di commercializzare la conoscenza attraverso brevetti o l’avvio di aziende. La proposta del Forum è stata, sin dal 2019, quella di cambiare questa impostazione, e questa azione ha influenzato il lavoro dell’Anvur che nel Rapporto sulla Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) 2015-2019, nell’ambito della “terza missione”, ha introdotto dieci campi d’azione, nei quali gli Atenei possono proporre alla valutazione degli ‘studi di caso’: in alcuni casi si tratta di campi d’azione in parte pre-esistenti, altri sono stati inclusi grazie al processo innescato dal lavoro congiunto del Forum Disuguaglianze e Diversità con un gruppo di Atenei tra il 2019 e il 2022.
Tuttavia sappiamo bene quanto la spinta neoliberista sia ancora forte. Lo leggiamo nelle pagine del Rapporto Draghi, in cui viene richiamato, tra le cause del ritardo tecnologico dell’Europa rispetto agli Stati Uniti, anche il fatto che le università e i centri di ricerca non commercializzino a sufficienza i loro risultati. Nell’analisi critica del ForumDD al Piano, viene ripreso questo punto, sottolineando che a sostegno di queste tesi non vi è analisi, ma un giudizio, che non tiene conto dei valori propri dell’Europa sulla base dei quali – non demolendo i quali – può essere rafforzata la sua competitività, e tra questi vi è la missione delle università nella UE di attuare il loro mandato utilizzando le risorse pubbliche con cui sono finanziate per produrre “scienza aperta” nell’interesse collettivo.
E la spinta neoliberista è molto presente negli intenti del governo. Il ddl 1240, o cosiddetto “DDL Bernini” o “riforma del preruolo” infatti peggiora ulteriormente, anche a causa dei tagli che prevede, una situazione già critica del sistema nazionale dell’università e della ricerca.
Innanzitutto, trascurando gli annunci propagandistici, il sistema è pesantemente sottofinanziato. “L’obiettivo concordato a livello europeo di investire il 3% del PIL in ricerca e sviluppo è lontanissimo: in Italia non siamo neppure alla metà (1,4%) e ben al di sotto della media EU (2,1%). Il governo ci ha messo un altro carico, con un taglio che si aggira sugli 800 milioni. Di questo passo, l’emigrazione dei migliori talenti – che si verifica ormai da decenni – non solo continuerà, ma aumenterà e le università non potranno più garantire l’alto livello di formazione e ricerca che hanno assicurato finora”, commenta Fulvio Esposito.
Giacomo Gabbuti, in due articoli sul Menabò di Eticaeconomia e su Jacobin Italia, fa una fotografia dettagliata dei tagli. “Il Governo rispolvera i tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO). Contro ogni smentita, il Decreto Ministeriale n. 1170 del 07-08-2024 che, come ogni anno, stabilisce i criteri di riparto dell’FFO 2024, ne certifica il taglio di 173 milioni rispetto al 2023 – primo taglio nominale dal 2015. In termini reali, le risorse erano già in calo – almeno dal 2020, quando, secondo la serie ricostruita dall’FLC-Cgil, avevano appena recuperato i livelli pre-Gelmini – un andamento confermato dalla serie in rapporto al Pil elaborata da Rocco De Nicola e Giovanni Dosi. A questi 173 vano aggiunti 340 milioni, vincolati ai piani di reclutamento stabiliti nel 2022, che portano alla stima di “mezzo miliardo di tagli”. Come se non bastasse, l’entrata a regime degli aumenti delle retribuzioni del personale porta l’FLC-Cgil a prevedere un ulteriore aumento di spesa di 300 milioni rispetto al 2022. Dopo le proteste della CRUI, il Ministero ha acconsentito a cambiare destinazione alle risorse del piano straordinario; in parole povere, di coprire le spese in aumento tagliando le assunzioni, come già annunciato da molti atenei che faticheranno a chiudere i bilanci. Un ulteriore taglio di 702 milioni nel triennio 2025-27 è stato previsto dalla finanziaria, assieme al blocco del turnover al 75% nel 2025, come tutta la PA. Un definanziamento che, come denuncia da anni Gianfranco Viesti, non potrà che impattare diversamente sugli atenei delle aree più svantaggiate del paese, confermando le tendenze degli anni passati”.
Ancora, il ddl Bernini introduce una pletora di figure precarie senza tutele e senza orizzonti. “Il DDL 1240 – spiega Gabbuti – è un feroce passo indietro rispetto alla già difficile situazione attuale. Accanto alle figure di Ricercatore Tenure Track (RTT), di sei anni, con prospettive di stabilizzazione e il Contratto di Ricerca, biennale, prevede di aggiungere a Rtt e Contratto di Ricerca quattro ulteriori figure: i) il Contratto post-doc, simile a quello di Ricerca ma annuale e senza contrattazione collettiva; ii) un “professore aggiunto” di tre anni, nominato direttamente dalla governance degli atenei, senza bisogno di abilitazione scientifica e senza limiti alla retribuzione, che rischia contemporaneamente di istituzionalizzare la docenza a contratto precaria e aprire a dinamiche inquietanti; ma soprattutto: iii) e iv) due figure di Assistente alla ricerca – junior e senior – che nel testo del DDL vengono definite di “borsisti” e sembrano la riesumazione al ribasso degli assegni. Il ddl Bernini di fatto dà via a una precarietà à la carte, per cui, mentre si dà la possibilità a chi vince progetti europei (in cui assegni e borse non sono rendicontabili) o ha molte risorse di pagare di più, si permette ai “poveri” di continuare ad assumere con pseudo-contratti”. “Il tentativo di ‘svecchiare’ un insieme del personale dedicato alla ricerca e all’alta formazione che, in Italia, ha un’età media fra le più alte d’Europa, cercando di assicurare maggiore trasparenza e certezza ad un sistema opaco e indecifrabile per quanto riguarda l’accesso alla carriera e il suo sviluppo, è stato messo da parte nei provvedimenti in discussione al Parlamento. Solo chi ha alle spalle una famiglia in grado di dare sostegno potrà lavorare nelle Università e nella ricerca e questo tradisce il dettato costituzionale di uguaglianza”, aggiunge Esposito, che prosegue evidenziando un altro tema di cruciale importanza, se ci ricordiamo delle proteste di studenti e studentesse in tenda dentro le Università contro il caro-affitti: “I numeri parlano chiaro: gli alloggi di proprietà pubblica (collegi o residenze universitarie) non arrivano a coprire nemmeno il 10% del fabbisogno, cioè del numero degli studenti ‘fuori sede’. Questo costituisce il più importante ostacolo all’accesso agli studi universitari da parte di chi non ha alle spalle una condizione economica della famiglia che può affrontare una spesa che non è inferiore ad alcune migliaia di euro l’anno. Anziché investire in ambito pubblico per migliorare questa situazione, anche qui il governo da una parte taglia, dall’altra mette a disposizione le risorse del PNRR per la realizzazione di residenze private”.
Accanto a questo indebolimento delle Università pubbliche si assiste all’esplosione delle università telematiche – discussa sul Menabò da Flaviana Palmisano. Proprio mentre gli atenei pubblici, privi di risorse, non hanno idea migliore che alzare le tasse universitarie, le telematiche li svuotano di migliaia di iscrizioni (anche grazie alle evidenti storture, documentate sempre da Palmisano, riguardanti modalità d’esame e rapporto docenti/studenti). “Le politiche aggressive delle università telematiche private, che contano su evidente sostegno politico (il tentativo della Link di aprire corsi di laurea in medicina nelle Marche ne è un esempio), stanno sferrando un ulteriore duro colpo alla sostenibilità del sistema universitario pubblico. Sta succedendo la stessa cosa che abbiamo visto nel sistema sanitario. Gli ipotetici ‘vantaggi’ della formazione privata a distanza orienteranno numeri crescenti – tra coloro che se lo possono permettere – verso questo settore, dove si ottiene, con un po’ di soldi e poca fatica, un titolo di studio che ha lo stesso valore di quello conseguito attraverso lo studio serio. Per non parlare dello snaturamento dell’istituzione-università che si fonda sull’interazione continua e vivace all’interno di una comunità aperta e plurale”, commenta Esposito.
Cosa possiamo fare?
“Una nuova “settimana di agitazione” inizia il 27 gennaio e andrà avanti fino al 31, perché proprio in questi giorni la Riforma dovrebbe essere discussa in Senato, mentre il movimento studentesco pisano lancia un appello per nuove mobilitazioni studentesche, e un’Assemblea nazionale delle assemblee precarie si terrà a Bologna l’8-9 febbraio, anche per dar modo ad una componente cresciuta a dismisura negli ultimi anni di incontrarsi e organizzarsi”, spiega Gabbuti che in vista della settimana di mobilitazione, ma più in generale dei mesi che verranno si è fatto promotore di un form, preparato dagli Stati di agitazione e gestito dalla Rete29Aprile al fine di estendere e coordinare la mobilitazione dentro al corpo docente. Un’azione concreta che chi lavora nelle Università può intraprendere, insieme a quella di prendere contatto, con la locale Assemblea Precaria, FLC-CGIL, associazione di docenti o e di diffondere il form il più possibile all’interno degli Atenei. “A doversi organizzare, però, non è solo la componente precaria dell’università”, conclude Gabbuti. “Se quest’ultima è facile preda dei ‘colpi’ qui riassunti, è anche perché il suo personale è quasi interamente non sindacalizzato, e in generale, poco incline all’azione collettiva e a sentirsi parte di una comunità di lavoratrici e lavoratori. Per resistere ai ‘colpi’ del governo, però, non basterà firmare un appello, scrivere un tweet salace, o anche un articolo come questo: è necessario partecipare, alle assemblee – in primis quelle convocate dai precari – e alle mobilitazioni; fare rete, anche iscrivendosi – perché no? – ad associazioni o sindacati; parlare coi colleghi, e anche con gli studenti, che sono le prime vittime di un’università pubblica definanziata. Difficile che il paese si renda conto di cosa rischia di perdere, se chi lavora nelle università non glielo spiega”.