E’ un must, e non un optional, definire quali disuguaglianze sono moralmente e socialmente accettabili o giustificabili. In questo senso la disuguaglianza non è un dato ma un problema. Se manteniamo lealtà a un nucleo elementare di valori che è incorporato nei fondamentali della convivenza democratica.
Un contributo di Salvatore Veca*
Nella discussione pubblica degli ultimi anni la questione della disuguaglianza economica e sociale, entro le società e fra le società, ha assunto un rilievo crescente. E in un mondo attraversato, al tempo stesso, da processi di interdipendenza e da linee di conflitto che rendono porosi i confini, il rilievo crescente della questione ha assunto inevitabilmente un carattere globale. Se si considera il semplice fatto che le disuguaglianze di reddito e ricchezza sono state insieme una delle cause e uno degli effetti della grande crisi sistemica in cui siamo stati intrappolati almeno negli ultimi dieci anni, è naturale che la teoria economica abbia rimesso al centro dell’analisi e delle prognosi il tema della distribuzione di reddito e ricchezza e degli effetti che le crescenti disuguaglianze hanno sia sul piano della crescita economica sia sul piano delle istituzioni politiche e delle pratiche sociali.
Basta pensare, in proposito, ai contributi di Paul Krugman, Amartya Sen, Jean-Paul Fitoussi, Thomas Piketty, Joseph Stiglitz o Anthony Atkinson. Si tratta di esiti di ricerche che in vario modo si basano sul rifiuto del dogma centrale della teoria mainstream, coincidente con il principio di autoregolazione dei mercati come criterio sia positivo sia normativo per l’analisi del funzionamento dei sistemi e per le raccomandazioni di politiche economiche. Ciò che emerge dalle ricerche economiche eterodosse sulla dinamica delle disuguaglianze è spesso una domanda che riguarda le ragioni per cui dovremmo impegnarci nella loro riduzione.
Nella prefazione all’edizione italiana di Inequality di Atkinson, Chiara Saraceno richiama un passo eloquente del sociologo Goran Therborn che all’inizio del suo The Killing Fields of Inequality asserisce: “La disuguaglianza è una violazione della dignità umana; è la negazione della possibilità che ciascuno possa sviluppare le proprie capacità. Prende molte forme e ha molte conseguenze: morte prematura, salute cattiva, umiliazione, subordinazione, discriminazione, esclusione dalla conoscenza e/o da dove si svolge prevalentemente la vita sociale, povertà, impotenza, mancanza di fiducia in se stessi e di opportunità e possibilità della vita. Non è quindi solo questione delle dimensioni del proprio portafoglio. E’ un ordinamento socio-culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé, così come le risorse per partecipare pienamente alla vita sociale”.
Quello di Therborn è una sorta di catalogo degli effetti che un’ampia classe di disuguaglianze genera entro la struttura sociale. Si tratta di effetti che coinvolgono la qualità di vita di persone e che riguardano congiuntamente i loro modi di vivere le proprie vite e i loro modi di convivere con altre persone, entro una qualche società. In questa prospettiva, di nuovo, la teoria sociale mira a individuare le ragioni a favore della riduzione delle disuguaglianze.
Una classe di ragioni distinte, anche se non indipendenti, che militano a favore del contrasto alle disuguaglianze crescenti, emerge dagli studi di scienza politica e, in particolare, da quelle ricerche che hanno come tema le trasformazioni e i mutamenti delle democrazie contemporanee. A proposito degli effetti politici, osservo che noi abbiamo ragioni fondamentali contro lo spettro che ritorna e si aggira, entro le nostre democrazie costituzionali, dell’ancien régime di una società castale e cetuale. Una società dominata dal privilegio di qualcuno e non dall’interesse di chiunque, caratterizzata dalla crescente forbice delle disuguaglianze economiche e sociali e dal blocco della mobilità sociale, che erodono e rendono ipocrita la solenne promessa costituzionale della pari dignità delle persone, in quanto cittadine e cittadini, in quanto partner di eguale dignità della polis. (E’ naturale, dalle nostre parti, all’art. 3 della Costituzione.)
Per questo, ho richiamato l’attenzione sulle politiche dell’uguale rispetto, dipendenti dal riconoscimento dell’uguale importanza delle vite delle persone, come sostiene Amartya Sen, politiche che devono rispondere tanto ai funzionamenti delle persone, ai loro deficit, quanto alle capacità delle persone. Alle capacità delle persone di scegliere il loro progetto di vita, di scegliere chi essere. Le politiche dell’uguale rispetto mirano a ridurre le circostanze dell’umiliazione e della degradazione delle persone, le circostanze della coercizione arbitraria e tirannica, le circostanze dello sfruttamento e dell’uso di persone come arnesi, da parte di altre persone e in virtù dell’esercizio dispotico di poteri sociali, le circostanze in cui si erodono le basi sociali del rispetto di sé per le persone. In una parola, le circostanze dell’umiliazione e della dignità ferita, di cui ci parla Therborn nel suo passo eloquente. Le politiche dell’uguale rispetto dipendono strettamente dall’ideale difficile e ineludibile dell’equa eguaglianza delle opportunità e delle capacità dei cittadini e delle cittadine di essere, per quanto possibile, padrone della proprie vite, e non suddite o schiave di altre persone e di poteri arbitrari e dispotici.
Il vertiginoso aumento delle disuguaglianze di condizioni economiche e di status sociale ha generato una sorta di ancien régime postmoderno. Il compianto Luciano Gallino ha messo a fuoco in modo esemplare la duplice natura delle disuguaglianze crescenti come causa ed effetto, al tempo stesso, della grande crisi innescata dalla finanziarizzazione dell’economia capitalistica in un limpido saggio, Globalizzazione e diseguaglianze, che è il vero e proprio terminus a quo della sua appassionata e occhiuta ricerca sul finanzcapitalismo e sulla democrazia sotto attacco. Noi siamo il 99%, ci hanno ricordato le donne e gli uomini di Occupy Wall Street. E i fuochi di indignazione, che ciclicamente si accendono qua e là per il mondo, inverno arabo, primavera europea, autunno americano come si diceva qualche anno fa, si accendono quando la percezione delle ineguaglianze è patente nelle volte di crisi, e i costi sociali e morali si scaricano su ampie frazioni di popolazione senza voce e senza più diritti. O senza ancora diritti. Per questo, ogni volta che le ondate contestative si infrangono e l’ordine torna duramente a regnare nelle piazze e gli equilibri di potere sfidati si ricostituiscono, si avverte come una sensazione di spreco e dissipazione di una ricchezza umana possibile. Si avverte, ai tempi dell’ancien régime che ci è contemporaneo, lo scippo di speranza per le persone. Ed è per questo che l’ombra del futuro si contrae, lasciando spazio alla dittatura del presente. A questo punto, l’espressione ancien régime è appropriata, e non è un semplice slogan emotivo. Perché uno degli effetti sociali più vistosi e dirompenti delle disuguaglianze è il fatto radicale dell’ingiustizia: nessuno sceglie di nascere, da una parte o dall’altra, in una famiglia o in nessuna famiglia, in un sesso o in un altro, con un colore della pelle piuttosto che un altro. Ma quando il tuo destino di vita, il tuo progetto di vita è plasmato e dominato dall’arbitrarietà morale della tua nascita, qualsiasi idea di eguale considerazione e rispetto per le persone è cancellata dalla lavagna. E l’idea, che ne deriva, dell’eguaglianza delle opportunità per chiunque è violata e derisa.
Ha scritto in proposito il più grande teorico della giustizia sociale del secolo scorso, John Rawls: “la distribuzione naturale non è né giusta né ingiusta; né è ingiusto che gli esseri umani nascano in alcune posizioni particolari entro la società. Questi sono semplicemente fatti naturali. Ciò che è giusto o ingiusto è il modo in cui le istituzioni sociali trattano questi fatti. Le società aristocratiche o castali sono ingiuste perché fanno di questi fatti contingenti la base ascrittiva su cui assegnare l’appartenenza ad una classe sociale più o meno chiusa e privilegiata. La struttura fondamentale di queste società incorpora l’arbitrarietà che troviamo in natura. Ma non è necessario che gli esseri umani si rassegnino a subire questi fatti contingenti. Il sistema sociale non è un ordinamento immutabile al di là del controllo umano, ma è invece un modello di azione umana. Secondo la giustizia come equità, gli esseri umani accettano di condividere i propri destini”.
Ma vi è almeno un altro effetto sociale dirompente, su cui ho a più riprese richiamato l’attenzione: la lesione e la rottura del vincolo o del legame sociale nelle società della sfiducia. La distruzione del sociale, per dirla con Alain Touraine. La società divisa di Stiglitz. Il processo di erosione dei legami che Karl Polanyi aveva messo a fuoco nelle circostanze dell’insorgenza del capitalismo, conosce oggi una vistosa accelerazione. Viene meno la consapevolezza civile che siamo sulla stessa barca e che ciascuno di noi deve qualcosa a ciascun altro. La società come unione di unioni sociali si lacera e, come per sporulazione, lo spazio sociale si frammenta in cerchie o clan o tribù o compagnie di ventura o ghetti di segregazione. Per il resto, condanne alla sorte della solitudine involontaria. Così, il patto sociale è infranto e torna sulla scena il contratto iniquo fra chi ha e chi non ha, che Jean-Jacques Rousseau tratteggiò nel diciottesimo secolo nel suo fondamentale Discorso sui fondamenti e l’origine della disuguaglianza fra gli uomini. In una democrazia decente è naturale riconoscere, quale che sia la nostra interpretazione politica dell’interesse pubblico, che il sistema delle libertà fondamentali di cittadinanza deve essere eguale per chiunque. E che libertà per qualcuno o per pochi è semplicemente privilegio. Abbiamo, se l’abbiamo, come dovremmo averla, libertà eguale, ma – fortunatamente o sfortunatamente – abbiamo redditi e ricchezza, capitale sociale diseguali. La mia libertà è uguale alla tua, ma il suo valore può essere enormemente disuguale per te o per me. Se crediamo che la libertà uguale per le persone sia il valore prioritario, abbiamo ragioni fondamentali per chiederci quanto e se sia accettabile la disuguaglianza del suo valore per le persone. Per i cittadini e le cittadine, cui spettano uguale considerazione e rispetto.
Non è difficile riconoscere che tutto ciò è nel cuore della questione sociale, vecchia e nuova. La diagnosi di Karl Marx resta, in proposito, insuperata. Nella prima metà dell’Ottocento, all’indomani delle grandi Dichiarazioni dei diritti e sullo sfondo del capitalismo manchesteriano, Marx metteva a fuoco la tensione e la contraddizione fra l’uguaglianza nel cielo del citoyen e la disuguaglianza sulla terra del bourgeois. La disuguaglianza economica e sociale può trasformare la comunità democratica di cittadinanza in una comunità “illusoria”.
E’ proprio per mantenere la promessa fondamentale dell’uguale libertà che una politica democratica ha il dovere di ridurre –per quanto è possibile- le vistose disuguaglianze del suo valore per cittadini che spesso e volentieri sono riconvertiti nello status di sudditi, quando non nella condizione servile d’ancien régime, anche nella parte ricca o meno povera del mondo.
Nella narrazione impressionistica a proposito della disuguaglianza e dei suoi molteplici effetti ho fatto riferimento a una varietà di ragioni secondo cui la disuguaglianza è un male sociale e la sua riduzione è un obiettivo di valore degno di lode. Analiticamente possiamo definire i) una classe di ragioni come ragioni politiche che investono centralmente il deficit delle risorse di legittimità dei sistemi e dei processi democratici; ii) una classe di ragioni sociali che mettono a fuoco il deficit di coesione e di inclusione delle persone entro una qualche società; iii) una classe di ragioni economiche che riguardano i deficit della crescita o dello sviluppo di sistemi caratterizzati dal patrimonialismo intergenerazionale, dal predominio della ricerca della rendita e dal blocco della mobilità sociale; iv) una classe di ragioni culturali, in cui gioca un ruolo decisivo la logica del breve termine con le sue molteplici implicazioni; v) una classe di ragioni filosofiche che chiamano in causa questioni di giustizia sociale, alla luce di una varietà di principi che mirano alla giustificazione imparziale o impersonale della distribuzione di costi e benefici della cooperazione sociale in presenza di disuguaglianze del tipo di quelle cui mi sono riferito nei paragrafi precedenti. E’ a proposito di quest’ultima classe di ragioni che vorrei esplicitare una convinzione meditata e abbozzare una congettura.
La convinzione meditata è questa: la questione della giustizia sociale è tornata prepotentemente al centro della ricerca e della controversia intellettuale in quanto genuina questione di giustizia distributiva. Dopo qualche decennio in cui il paradigma dominante è stato quello della giustizia commutativa di una qualche versione di libertarismo, la domanda normativa fondamentale si formula ora come una domanda a proposito della giustificazione o meno delle disuguaglianze in termini di reddito, ricchezza o risorse. E questo ce lo suggeriscono, nelle recenti ricerche e nei loro sviluppi, la stessa teoria economica, sociologica o politologica. Del resto, il nucleo di qualsiasi filosofia politica come teoria normativa di una società giusta consiste nel problema della giustificazione. Questioni di efficienza, di coesione sociale o di legittimità delle forme di governo (nel caso delle differenti forme di governo democratico) si connettono strettamente alla richiesta di giustificazione delle istituzioni fondamentali e delle pratiche sociali, per gli effetti distributivi che esse hanno sulla qualità di vita delle persone che hanno entro il loro sfondo una vita con tante altre persone da vivere. Così, la convinzione meditata ci induce a riconoscere, a fronte dei costi morali e sociali della crescente disuguaglianza, che la giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali.
E’ possibile scaricare il testo integrale “Sulla disuguaglianza“ da cui è tratto questo contributo.
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