Questo articolo è stato pubblicato sull’edizione di Napoli di Repubblica martedì 29 gennaio.
Negli ultimi cinque anni, dopo alcuni decenni di colpevole mancanza di attenzione nei confronti della povertà, in Italia sono state approvate tre diverse misure nazionali di sostegno al reddito: la Carta Acquisti Sperimentale (CAS), il Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA) e il Reddito di Inclusione (ReI). La visibilità mediatica del tema ha però raggiunto livelli senza precedenti con l’approvazione del Reddito di cittadinanza. Il dibattito che ne è scaturito, soprattutto per quanto attiene la sfera dei decisori politici, ha mostrato tuttavia una scarsa capacità di comprensione effettiva del fenomeno, rivelando atteggiamenti giudicanti e orientamenti semplicistici. In ambito governativo la ricerca di consenso a tutti i costi è prevalsa sulla ricerca di strumenti e metodi in grado di valorizzare e rendere davvero efficace una misura fondamentale in un Paese, come il nostro, caratterizzato da povertà e vulnerabilità diffuse e complesse. Per non parlare di una città come Napoli che nei fatti rappresenta l’epicentro della povertà italiana. La sottovalutazione, consapevole o meno, dei problemi di attuazione di una governance multivello come quella richiesta dal Reddito di cittadinanza non promette inoltre nulla di buono.
Tuttavia anche ambiti significativi della sinistra non hanno mostrato di aver compreso fino in fondo la gravità della povertà in Italia, con forti rischi di incarognimento nelle aree di maggiore concentrazione come alcuni quartieri delle grandi città meridionali. L’esempio più eclatante è stato il commento di una ex ministra del Pd che si è spinta a scrivere su Twitter che la colonna sonora più coerente del provvedimento dovrebbe essere la canzone: “Una vita in vacanza”. Rispolverando una argomentazione della destra più ultraconservatrice, per capirci quella di Reagan e della Thatcher, cioè l’idea che il povero sia uno scroccone del welfare e che occuparsi dei poveri significa produrre dinamiche assistenzialistiche che finiscono per cronicizzare tali situazioni. Lo stesso Renzi, nell’ossessivo richiamo alla sacrosanta creazione di lavoro, dimentica che “assistenza” non è una cattiva parola, c’è anche nell’art. 38 della Costituzione e che “quanno ce vo’ ce vo’” per usare il linguaggio colorito della politica italiana. E quand’è che il ricorso all’assistenza è inevitabile? Quando ad esempio il “lavoro non basta” (titolo di un bel libro di Chiara Saraceno) ad assicurare condizioni minime di vita familiari perché è precario, mal pagato, o pagato bene ma è l’unico reddito che entra in famiglia. Oppure quando c’è un figlio da seguire, un padre bipolare, una madre con l’Alzheimer, figli piccoli da accudire (e a volte più di una di queste cose insieme) in assenza di servizi che liberino tempo per il lavoro, ammesso che qualcuno te ne offra uno anche a 100 km di distanza. A complemento di ciò è passata l’idea che i poveri siano persone verso le quali esercitare un’azione pedagogica di gestione di bilanci magri dimenticando che la povertà italiana è prevalentemente una povertà di famiglie non particolarmente problematiche, nelle quali la sapienza delle casalinghe, la loro abilità culinaria e un’attitudine al risparmio in vista di tempi peggiori consentono di tirare avanti e mantenere un certo decoro.
Nessuno si salva dal discredito verso i poveri. La rappresentazione generalista della povertà e la creazione dello stereotipo del povero “sdraiato sul divano” come il personaggio di Andy Capp, ubriacone e scansafatiche delle strisce umoristiche della Settimana enigmistica, è applicata non solo alle persone in situazione di marginalità estrema ma anche, e in modo ancor più paradossale, a figure come quelle dei working poor, che pure dimostrano di essere inserite nel mondo del lavoro. In tal modo il RDC fa fare un passo indietro lungo la strada del riconoscimento delle prestazioni per i poveri come diritti esigibili universali volti a colmare le lacune esistenti nella copertura degli schemi di assicurazione obbligatoria (che riguardano solo i lavoratori) e a far fronte ai cambiamenti sociodemografici timidamente imboccata dal governo Renzi e Gentiloni. Questa sarebbe realmente una critica da fare! Altro che inizio di un nuovo welfare!
Con il Reddito di Cittadinanza si dà nuova forza ad una concezione della politica come forma di protezione della società dal povero o come concessione paternalistica ai soli poveri che dimostrano di meritarla. Esso pertanto, al di là delle apparenti divergenze politiche in seno alla maggioranza di governo, è del tutto coerente con la politica leghista dei sindaci sceriffi, che per pura crudeltà buttano via le coperte dei senza dimora o emettono provvedimenti volti a punire le persone per il solo fatto di porre in atto strategie di pura sopravvivenza come frugare nei bidoni dell’immondizia o chiedere l’elemosina o anche semplicemente perché il loro aspetto viene considerato una offesa al decoro pubblico.
Insomma questa torsione in senso punitivo – oltre ai problemi richiamati di governance – rischia di ridurre il più grande investimento fatto contro la povertà da un Governo nazionale in uno strumento inefficace e di basso impatto.
Quello che il Governo dovrebbe fare – e l’opposizione dovrebbe chiedere – è di far tesoro dell’esperienza del Rei, superandone i limiti (di copertura in primo luogo) per costruire un sistema di intervento capace di coniugare il sostegno economico con programmi individualizzati e familiari di inclusione e emancipazione, sapendo che il sostegno all’inserimento lavorativo è solo uno, per quanto importante, dei canali attivabili su cui strutturare i programmi stessi e che esso non può dare buoni frutti senza una politica di creazione di nuovi posti di lavoro. Smettendo di pensare che in fondo in fondo i poveri sono tali per colpa loro, dando avvio ad una deriva che trasforma i diritti in concessione se dimostri di meritarteli E più in generale alimentando l’idea che il problema non è ridurre le disuguaglianze, ma come trattare i poveri.