Anche nei luoghi più impensabili si possono aprire possibilità inedite quando la produzione artistica incontra lo sviluppo territoriale e i processi partecipativi. Senza retorica e partendo dai sogni delle persone che in quei luoghi vivono.
Intervista ad Alessia Zabatino*
Lei ha lavorato in contesti diversi sulla dimensione territoriale delle disuguaglianze, a cui il Forum attribuisce forte rilievo. Ma non pesano anche, luogo per luogo, la dimensione di classe e di genere delle disuguaglianze? Come si intrecciano le une con le altre?
Mi occupo di sviluppo locale e ho lavorato per diversi anni per la Strategia Nazionale Aree Interne. Questo mi ha permesso di vivere pezzi d’Italia lontani e diversi, ma simili per la carenza di servizi essenziali e per gli effetti connessi ai processi di spopolamento.
Lì dove i servizi scarseggiano, la disuguaglianza di genere non è una sorpresa: sono le donne ad assumersi il carico della cura dei figli e delle persone anziane della famiglia. Questo accade nelle aree interne, così come nelle aree urbane più depresse. In territori in cui la maggior parte delle scuole non ha il tempo pieno, dove spesso non ci sono asili nido, dove non ci sono cinema o molti spazi dove fare sport o imparare a suonare uno strumento e il trasporto pubblico funziona poco e male, il carico di cura è oberante.
Nelle aree interne in cui ho lavorato la disuguaglianza di genere assume anche una declinazione peculiare: i ruoli delle amministrazioni locali sono ricoperti per la maggior parte da uomini e questo secondo me ha una ripercussione forte e negativa sulle politiche locali. Anche i ruoli di rappresentanza di categoria, soprattutto nel settore agroalimentare, spesso il settore portante dell’economia locale, sono ricoperti per la maggior parte da uomini. Ci sono aree interne in cui ancora le proprietà di boschi e pascoli possono essere ereditate solo dal figlio maschio. Nella classe dirigente delle aree interne c’è una disuguaglianza di genere evidente.
Non mi sorprendeva dunque che nei primi incontri per la co-progettazione, in ogni territorio, ci fosse una bassissima partecipazione femminile. Abbiamo lavorato perché aumentasse, raggiungendo le donne nei tempi e nei luoghi più comodi per loro.
Ovviamente nelle aree interne ho incontrato anche donne attive in politica, imprenditrici agricole innovative, educatrici carismatiche, ma hanno ancora poco spazio.
Le politiche di sviluppo devono avere la capacità di ampliare quello spazio e mettere al centro i servizi per la cura dei figli e delle persone anziane, altrimenti la disuguaglianza di genere non si colmerà.
Per quanto riguarda la dimensione della classe sociale, anche se ho qualche difficoltà ad usare questa espressione, durante il lavoro sul territorio ho riscontrato che chi si sente in diritto di aver voce sul futuro del proprio territorio fa spesso parte delle élite locali. Appartiene a quella che potremmo definire “classe riflessiva rurale” che si ritiene l’unica interlocutrice possibile, anche quando le loro soluzioni per lo sviluppo non si sono poi rivelate vincenti. Per questo è importante creare spazi orizzontali di progettazione e di immaginazione collettiva, aperti a tutti, facendo capire a chi non sente di potere aver voce, che invece quello spazio è per tutti, anche per loro.
Partecipazione è il motto suo e di molti altri che si impegnano in uno sviluppo mosso dai luoghi. Ma, come scrive Giovanni Moro, non tutti i cittadini, soprattutto quelli con tempi di vita più stressati e in condizioni di debolezza, hanno tempo di partecipare. Cosa serve affinché anche la voce dei più deboli pesi nel pubblico confronto e nelle decisioni?
Più che un motto, credo che sia l’approccio migliore per chi si occupa di processi di sviluppo perché chi fa questo non può avere soluzioni “chiavi in mano” o formule magiche.
Le politiche di sviluppo possono essere degli importanti dispositivi per l’esercizio della democrazia perché possono valorizzare le conoscenze e le esperienze di ogni cittadino, anzi quelle esperienze e quelle conoscenze, la vita quotidiana sono i punti di partenza.
Ha ragione Moro quando dice che chi si trova in condizioni di maggiore debolezza non ha tempo di partecipare. Infatti la partecipazione non funziona aprendo la porta e facendo accomodare chiunque arrivi. Facendo così arriveranno coloro che si ritengono gli interlocutori illuminati. Nelle aree più marginali e depresse in cui ho lavorato, in particolare nelle aree interne, ho messo quindi da parte metodi di facilitazione come l’Open Space Technology e il World Cafè, e sono tornata a Danilo Dolci e alla maieutica reciproca, la metodologia di indagine e autoanalisi che Dolci ha sperimentato in Sicilia dagli anni ’50: porre domande, garantire libertà di esprimere ciò che si pensa sulla base delle proprie esperienze, condividere e commentare proposte. E questo metodo non si può applicare se non si ripensano anche gli spazi e i tempi della partecipazione. Alle persone che sono stressate e la cui vita è complicata da condizioni socio-economiche difficili, bisogna andare incontro, in senso fisico e letterale. Per questo per me la lezione di Danilo Dolci è fondamentale.
Nelle aree interne abbiamo fatto discussioni con i cittadini in luoghi impensabili: aziende agricole, scuole aperte fuori orario, case di riposo. La cosa più importante che deve avvenire, senza necessariamente ricorrere a strumenti e tecniche raffinate che invece possono risultare troppo controproducenti, è che le persone sentano di avere la libertà di potersi esprimere. E non basta arrivare su un territorio e chiedere alle persone “Che bisogno hai? Qual è il tuo problema?”. La cosa più importante è aprire lo spazio dell’immaginazione perché dentro il sogno ci sono anche tutti i problemi che non ne permettono la realizzazione. Parlare di visione significa anche iniziare a capire come fare le cose, come trasformare il presente.
Cosa sono “gli spazi del possibile” che lei cerca di creare attraverso il suo lavoro di promozione culturale? Sente che è riuscita in alcuni casi a crearli? Ci racconta qualche caso in particolare?
Mi riferisco agli spazi in cui ciò che viene immaginato può essere effettivamente costruito insieme. E’ chiaro che con la produzione culturale e artistica ho creato piccoli ed estemporanei spazi del possibile, mentre con il lavoro di progettazione di sviluppo penso di aver contribuito a creare degli spazi del possibile più duraturi. Però le faccio un esempio.
Al FILFest Festival della Felicità Interna Lorda che organizzo a Catania con ImpactHub Siracusa, abbiamo organizzato un workshop nel quartiere di San Cristoforo noto per la povertà e l’esclusione sociale e la povertà educativa e siamo andati alla ricerca di cosa rendesse felici gli abitanti del quartiere. Le persone ci hanno aperto le porte, ci hanno accolto e abbiamo parlato con loro. Alcune persone che hanno partecipato al workshop hanno poi riutilizzato il metodo della deriva psicogeografica e dell’”incursione” artistica in altri quartieri delle loro città, andando oltre la loro consueta modalità di entrare in relazione con un territorio, d’altra parte mi piace pensare che le persone del quartiere che ci hanno accolto in casa abbiano potuto vivere una relazione diversa e felice con chi ha attraversato il loro quartiere.
Lei ha dichiarato che le interessano gli artisti-attivisti. In un mondo contemporaneo così complesso dove la politica sembra non essere più la dimensione dell’incontro e dell’elaborazione culturale, gli artisti engagé come dicono in Francia, possono fare la differenza e toccare le corde più intime delle persone. Ma questo processo non riguarda forse solo una parte dei cittadini? O invece può aiutare a ridurre le disuguaglianze, e come e sotto quali condizioni?
La produzione artistica e culturale credo che sia una una delle forme di politica più straordinarie e dirompenti, in ogni tempo, perché ha la capacità e la sfacciataggine di ricostruire memorie, di denunciare, di fotografare ciò che è difficile vedere, di dare nuove chiavi di lettura e di riappropriazione di spazi, di risignificazione e riconoscimento di luoghi. Ci sono tantissime esperienze in Italia che vanno in questo senso, ma che purtroppo, non hanno politiche a supporto, solo qualche possibilità di finanziamento da privati.
Basti pensare agli ecomusei nati da vere mappatura di comunità come l’ecomuseo Mare Memoria Viva di Palermo, ad alcuni festival in aree interne come il Festival della Paesologia di Aliano o Kilowatt di San Sepolcro che coinvolge gli abitanti nella selezione delle produzioni artistiche. O ancora il bellissimo Museo dell’Ossidiana in Sardegna, nel piccolo paese di Pau dove si trova il più grande giacimento mediterraneo di questa pietra vulcanica. La cooperativa che lo gestisce applica il metodo di Philosophy for Children per fare un percorso di riflessione con i bimbi sugli “scarti della società” a partire dagli scarti della lavorazione dell’ossidiana. Nella piccola sala degli scarti, i bambini e le bambine fanno un percorso mentale e di consapevolezza che è difficile riprodurre, con questa potenza evocativa, in classe. E’ indubbio che gli spazi artistici sono delle porte che consentono di riconoscere e di capire la complessità dell’epoca contemporanea.
Tutti questi operatori culturali lavorano incessantemente su strategie di audience development perché si riconoscono una funzione sociale. Potrebbero avere un impatto ancora più forte se venissero riconosciuti a pieno titolo come soggetti della comunità educante e se ci fossero politiche culturali a supporto.
In questo momento invece vivono anche la concorrenza di altri operatori culturali che cercano di accedere ai finanziamenti per attività di produzione artistica aperte alla comunità, pur non avendone una vera vocazione.