Molti scienziati sociali concordano oggi sul fatto che prendersi cura di un orto o un giardino aperto alla cittadinanza e gestito in maniera collettiva rientra a pieno titolo nelle pratiche di resistenza alla marginalizzazione economica e politica e le molteplici manifestazione della disuguaglianza sociale.
Cosa c’entra il giardinaggio urbano[1] con l’ambizioso progetto politico di contrastare l’ingiustizia sociale? Molto più di quanto si possa immaginare. Con il crescere esponenziale delle iniziative di giardinaggio urbano nelle città di tutto il mondo (ad esempio, a Roma sono oggi circa 200, come documenta la mappa di Zappata Romana[2]) molti scienziati sociali concordano oggi sul fatto che prendersi cura di un orto o un giardino aperto alla cittadinanza e gestito in maniera collettiva rientra a pieno titolo nelle pratiche di resistenza alla crescente neo-liberalizzazione degli spazi urbani e fornisce uno strumento di contrasto all’impoverimento culturale e sociale, la marginalizzazione economica e politica e le molteplici manifestazione della disuguaglianza sociale che si tramuta in ingiustizia soprattutto nelle aree periferiche degli agglomerati urbani.[3]
Proprio all’analisi del legame tra giardinaggio urbano e giustizia sociale e ambientale è dedicato il volume Urban gardening and the struggle for social and spatial justice curato da Chiara Certomà, Susan Noori e Martin Sondermann ed edito dalla Manchester University Press (in uscita a febbraio 2019), che muovendo dalla crisi delle politiche sociali e del modello di “enabling welfare states”[4] in molte democrazie europee, affronta questioni centrali nel dibattito contemporaneo quali la coesione e inclusione sociale, la capacità innovativa dell’attivismo civico, e il ruolo della pianificazione urbana nel creare spazi di giustizia.
Sulla base dei risultati delle ricerche condotte dalla rete europea Urban Allotment Gardens[5] il volume propone una panoramica delle diverse forme, obiettivi e strategie del giardinaggio urbano come forma di azione politica. La natura intrinsecamente politica di molte iniziative di giardinaggio urbano è stata ormai ampiamente affermata nell’analisi scientifica[6] ed è evidente nelle reti spontanee di cittadini, come ad il Guerrilla Gardening[7] o l’Incredible Edible Network[8]; e nelle iniziative istituzionali, le reti di ricerca internazionali o i progetti europei (ad esempio, Urban Agriculture Europe, Agri-Urban o Urban Green Labs).[9]
Oltre a descrivere come i giardinieri urbani trasformano gli spazi verdi pubblici abbandonati in luoghi in cui si incontrano, si confrontano e trovano una mediazione prospettive a volte contrastanti e modi diversi di abitare la città, gli autori propongono un esame critico delle potenzialità, dei limiti e delle reali conseguenze di queste iniziative in termini di mitigazione delle ingiustizie sociali e ambientali. Attraverso l’analisi di casi approfonditi in Italia, Danimarca, Polonia, Svizzera, Grecia, Regno Unito e Irlanda, i vari capitoli del libro descrivono in quali contesti e condizioni il giardinaggio urbano è in grado di creare coesione sociale e costruire comunità, proporre alternative all’attuale regime globale di di produzione e commercio alimentare contrastando l’insicurezza alimentare (tema particolarmente sentito nei paesi anglosassoni), e offrire a gruppi sociali marginalizzati spazi dedicati che al contempo ricreano e alimentano la ricchezza (ecologica e culturale) degli ecosistemi urbani. Come ricorda l’attivista anglosassone David Tracy:
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