La scuola resta un luogo vitale per l’incontro tra culture e vissuti, un luogo capace di connettere comunità e territori e di generare cambiamento in positivo.
In molti contesti urbani le scuole, rappresentano uno dei pochi luoghi dove il confronto sulla questione dell’incontro tra italiani e immigrati non può fare a meno di partire dal dato di realtà, di fondarsi e prendere spunto e argomenti dalle esperienze di tutti i giorni. In questo modo le scuole provano a costruire e praticare forme di accoglienza e inclusione mirate a consentire agli alunni con background migratorio di sentirsi accolti e di accedere alle stesse opportunità di studio offerte ai loro coetanei italiani.
Non è cosa da poco in un Paese in cui il confronto su tali temi, soprattutto nel racconto dei media e nel dibattito politico, più che del fenomeno immigrazione parla della sua rappresentazione. Una rappresentazione troppo spesso superficiale, deformante, perché da un lato incapace – forse per assenza di coraggio e competenze – di riconoscerne la complessità, d’altro lato perché centrata su letture in bianco e nero, inadeguate per leggere situazioni dove quasi sempre prevale il grigio. La scuola, allora, si dispone come comunità di pratiche che vuole e deve tenere conto sia delle risorse sia delle difficoltà, che interviene e racconta sulla base dell’esperienza diretta.
Tale capacità, per altro, nelle periferie urbane può essere ulteriormente valorizzata. Perché in questi territori, significativi sia a livello geografico che sociale, quasi sempre le contraddizioni non sono contenute in contesti specifici o rinchiuse in ambiti nascosti, ma fanno parte del paesaggio, ne caratterizzano la forme e le relazioni, obbligando i diversi attori a fare i conti con loro.
E in particolare la scuola, nelle periferie, non solo osserva ma ha dentro di se, nel suo quotidiano e nelle sue attività, problemi e differenze, primi e ultimi, buoni e cattivi, migranti e italiani. Insomma, si può affermare che “dai margini la realtà si vede meglio“.
Guardare meglio e da dentro aiuta a comprendere di più, a evitare luoghi comuni, a trattare le percezioni e le diffidenze per quello che sono e non come fenomeni assodati immutabili e per questo da assecondare passivamente.
E così, per esempio, facendo i conti con la presenza di alunni con background migratorio, la scuola, prima di altre istituzioni e soggettività pubbliche, si rende conto di come, nei processi di integrazione, intesi non come percorso che una minoranza deve fare per assomigliare e rendersi simile a una maggioranza, ma come processo di adattamento reciproco nella ricerca di una convivenza possibile, sia sempre più difficile continuare a proporre ciò che scrivono Irene Punzi e Ferruccio Pastore: “la separazione tra un ‘noi’ e un ‘loro’”.
Su questo, un esempio è legato al tema dell’insegnamento dell’italiano che come sottolineano alcuni dirigenti di scuole delle periferie urbane di Napoli non è una questione che riguarda solo gli alunni di cittadinanza non italiana. Come ha detto una delle insegnanti che ha partecipato al sessione di lavoro: “Nelle mie classi il cattivo rapporto e la difficoltà di utilizzare l’italiano è questione che riguarda la maggioranza degli alunni, italiani e immigrati. Perché per loro l’italiano è la lingua della regola e della punizione mentre la lingua degli affetti, del divertimento e della famiglia è il dialetto. Insomma, io ho il problema di fare innamorare della lingua italiana i miei alunni e in questo la presenza di alunni con background migratorio mi ha aiutato a mettere al centro il problema” .
Quindi la scuola, nelle città e soprattutto nelle periferie, può fare la differenza per sostenere percorsi virtuosi di integrazione e convivenza. Ma per “fare la differenza”, quali sono le caratteristiche e gli atteggiamenti di una scuola che si candida, appunto, come soggetto in grado di farla?
In primis quella di considerare, essere consapevoli, che dietro alla parola straniero non ci sono solo problemi, ma anche normalità e risorse.
In seconda istanza la scuola che fa la differenza è quella che sa “prendersi cura“, del territorio e della comunità; delle famiglie (perché la scuola è spesso l’unica istituzione ancora credibile in alcuni territori di periferia e che per questo ha grande influenza sui comportamenti e atteggiamenti delle famiglie stesse); degli alunni a cui insegna a prendersi cura di se stessi, degli altri e del loro ambiente. Una scuola che, ancora, sa prendersi cura della propria identità, perché così facendo riesce a stringere alleanze con la comunità, chiedendo a quest’ultima e ai suoi attori, a loro volta, di prendersi cura di sé medesima.
Nelle periferie, la scuola che fa la differenza è quella in grado di aprirsi al territorio, proponendo formazione e spazi di socialità. È quella capace di proporre bellezza e aggregazione, che trasmette il valore e il potere sociale dell’arte e della cultura. È la scuola che nel proprio fare non si limita a relazionarsi con il proprio territorio perché sa e vuole intrecciarsi con le altre zone della città. Perché considera la periferia non come cosa altra dalla città, ma come sua parte integrante e caratterizzante. Perché sa che fare eccellenza solo dentro se stessa non basta e non è utile se non c’è interazione con il territorio.
Ma la scuola che fa la differenza è anche quella che sa riconoscere i propri limiti, e che è consapevole di essere soggetto privilegiato e centrale ma allo stesso tempo non sufficiente. Che guarda al territorio consapevole delle risorse ma anche delle contraddizioni, sapendo che, come sottolineato in un intervento: “Nelle periferie si può ammazzare per le gocce d’acqua che cadono sui panni stesi dai vasi del balcone del secondo piano e contemporaneamente vedere persone che mettono tutto quello che hanno nel loro frigo per organizzare una cena in piazza”. Proprio per questo la scuola deve lavorare in tale ambivalenza, favorendo processi che portino le comunità dei margini a essere più attratte dalla cura e dalla accoglienza, piuttosto che dalla paura e dal rancore.
In alcuni interventi si è detto: “La mia scuola, nella mia periferia, si è fatta comunità”. Molto probabilmente la scuola che fa la differenza è proprio quella che produce comunità che insegna a costruire comunità educante. Ma per farlo è necessario che la scuola non sia sola, che sia consapevole della stringente necessità di lavorare con altri: con gli attori del territorio, con le altre istituzioni e agenzie pubbliche; con il volontariato e con il privato sociale, con le forme dell’auto organizzazione della cittadinanza attiva.
E se questo è il percorso per realizzarlo, come sottolineato da una dirigente di una periferia napoletana, occorre anche essere consapevoli che perseguirlo costa “una fatica immane“, perché accogliere, produrre inclusione, fare convivere differenze, lavorare nelle contraddizioni e nei conflitti è molto più faticoso che respingere e allontanare. Le stesse parole dell’accoglienza costano più fatica, sono più difficili da fare condividere che quelle del rifiuto e della paura.
Ma si deve sapere nello stesso tempo che vivere in città chiuse non fa bene, perché si diventa indifferenti e incapaci di guardare al cambiamento. Occorre l’incontro con l’altro, anche quando è faticoso o apparentemente indigesto, altrimenti tutto si fa autoreferenziale e il quotidiano diventa noia.
La scuola che fa la differenza, insomma, è quella consapevole della propria funzione pubblica e che sa collocare il proprio fare in una dimensione politica di cambiamento in grado di agire sulla realtà, a iniziare dalla capacità di produrre una narrazione altra sull’incontro e la convivenza tra differenze.
Si ringrazia la rivista Insegnareonline per l’autorizzazione alla pubblicazione del pezzo e ActionAid per l’utilizzo delle foto.