La lotta alle disuguaglianze, i cambiamenti climatici e le migrazioni sono sfide che si possono vincere solo con politiche condivise a livello europeo e globale. Eppure molti Governi sembrano sordi di fronte a questa evidenza. Serve dunque un forte coinvolgimento dei cittadini e dei giovani, dentro le Istituzioni e nelle piazze di tutto il continente. La battaglia per un’Europa diversa da quella attuale non è affatto finita.
Intervista a Elly Schlein*
On.le Schlein, se le chiedessi di descrivere in tre parole cosa significa oggi per lei “Europa” quali sceglierebbe e perchè?
Speranza, incompiuta, fragile. Incompiuta perché mancano parti di integrazione fondamentali perché possa funzionare e mantenere la promessa di maggior opportunità e diritti che è stata fatta alle nostre generazioni. Fragile, perché mai come ora c’è un grosso rischio di disgregazione, ed è ancora un’Europa troppo intergovernativa, dove l’ultima parola rimane ai governi nazionali che guardano soprattutto al proprio interesse e alle proprie opinioni pubbliche. Speranza, perché tutte le grandi sfide che ci troviamo di fronte e su cui ci giochiamo il futuro sono europee e globali, e non possono più trovare risposta entro i ristretti confini nazionali. Vale per le migrazioni, ma anche per i cambiamenti climatici, per la questione sociale e per la giustizia fiscale, come per la politica estera.
La crisi dei migranti, l’incertezza di fronte ai dazi imposti da Trump, il processo della Brexit in corso: l’Europa in questo momento sembra tutto fuorchè una comunità coesa. Come è avvenuta questa disarticolazione? E da dove partire per invertire la rotta?
L’Europa di oggi è molto lontana dal progetto che era stato immaginato da madri fondatrici e padri fondatori. Quella era una promessa di maggiori diritti e opportunità per le future generazioni e di progressiva integrazione che poi è mancata. Non si è mai riusciti a superare le reciproche diffidenze e il prevalere degli interessi nazionali. La crisi politica-istituzionale, seguita al momento dell’affossamento della Costituzione europea, si è saldata alla peggior crisi economico-finanziaria dal ’29, e questa congiuntura ha accentuato gli egoismi nazionali che hanno impedito di cedere sovranità e mettere in comune a un livello superiore le competenze necessarie a dare risposte condivise alle maggiori sfide che ci troviamo di fronte.
Si può ripartire solo dalla consapevolezza che queste sfide non possono essere affrontate da nessuno Stato membro da solo bensì necessitano di una capacità di visione comune che oggi manca totalmente all’interno del Consiglio europeo. La strada è rimettere al centro alcuni principi fondamentali, come quello di solidarietà, che è già contenuto nei Trattati e senza il quale l’Unione rischia di sfaldarsi. Per sfidare gli egoismi nazionali servirebbero però partiti più europei, corpi intermedi più europei, una stampa e un’opinione pubblica più europee, e piazze più europee, per affrontare al giusto livello queste sfide. Del resto i poteri che hanno avuto la meglio ed hanno potuto sin qui approfittarsi maggiormente dell’Unione e del mercato unico, si muovono già con disinvoltura attraverso i confini nazionali. Sarà un processo lungo ma indispensabile e su certi temi è già in atto, se pensiamo alle campagne sul tema del commercio internazionale, alle mobilitazioni per la solidarietà, ma anche alla battaglia delle donne polacche per i propri diritti che è diventata una protesta europea.
Ovunque nell’Unione si assiste al crescere di una dinamica autoritaria. Forze di destra, nazionaliste e xenofobe, sono sulla cresta dell’onda e promettono di tutelare “noi” riducendo le relazioni e la comunicazione con gli “altri”, erigendo contro loro barriere in contrasto con la logica di “identificazione” di “noi” con gli “altri” su cui l’Unione Europea ha scelto di mettersi alle spalle secoli di conflitto e imperialismo. Come tornare a fare dell’Unione la fonte di maggiori diritti per tutti e ricostruire attorno a essa fiducia e persino entusiasmo?
Assistiamo oggi ad un vero e proprio paradosso: quando sono entrata al Parlamento nel 2014, da europeista e federalista convinta, non mi sarei aspettata di vedere il crollo di Schengen, l’uscita di un Paese, l’incapacità dei 28 di affrontare insieme i flussi di rifugiati. Abbiamo invece visto Paesi nati o rinati dal crollo di un muro ergerne di nuovi per difendersi da persone disperate in fuga da guerre, fame e cambiamenti climatici. Abbiamo visto Paesi di 10 milioni di abitanti come l’Ungheria rifiutarsi di accogliere 1294 rifugiati in due anni, come previsto dal piano di ricollocamento approvato nel 2015. Quello europeo non è un problema di numeri di persone in arrivo o mancanza di risorse, ma esclusivamente di mancanza di volontà politica. Non stiamo, cioè, parlando di legittimi interessi configgenti da bilanciare adeguatamente, ma di politiche basate su pericolosa propaganda fondata sulla presunta purezza delle Nazioni e dei loro popoli. Retoriche e politiche che riecheggiano i tempi più bui della nostra storia comune. Del resto il nazionalismo non ha mai prodotto altro che guerre, pare che non abbiamo imparato nulla dalla nostra storia. La storia d’Europa è proprio aver fatto dell’unione di diversità una ricchezza. La prima cosa da fare è quindi investire sull’educazione e sulla cultura, a partire dalle scuole e sull’educazione alle differenze. L’unica speranza di integrazione viene proprio da lì, le nostre generazioni sono già vecchie. Ma le prossime saranno abituate a crescere insieme, consapevoli dell’uguaglianza, che non vuol dire annullare le differenze ma portarle a valore. Del resto è proprio dalle scuole che bisogna iniziare ad agire per assicurare pari condizioni di partenza a tutti, evitando che le differenze diventino diseguaglianze: sociali, economiche, di genere. Inoltre, bisogna che l’Unione sia più rigorosa nella difesa dei principi fondamentali e dello Stato di diritto, perché questo timore reverenziale delle Istituzioni europee verso i Governi sta lasciando ampio margine all’autoritarismo di alcuni di essi. Importante che nel corso di questa legislatura si sia attivata per la prima volta la procedura prevista dall’art. 7 per le gravi violazioni dei principi fondamentali sia per l’Ungheria che per la Polonia. E infine bisogna contrastare la falsa retorica nazionalista e xenofoba. Orban fa le campagne contro Bruxelles e contro i ricollocamenti, ma non rinuncia ai fondi europei con cui molti dei Paesi Visegrad hanno rimesso a nuovo le proprie città dando opportunità concrete di sviluppo ai propri cittadini e alle imprese. Ma questa pericolosa retorica che mette contro un “noi” che non esiste più ad “altri” che vengono da fuori è una grande arma di distrazione di massa che fomenta una guerra tra poveri e nasconde il vero asse tracciato invece dalle diseguaglianze. Si punta il dito verso l’ultimo arrivato, il diverso, e mai contro quelle multinazionali che eludono il fisco europeo per 1000 miliardi di euro all’anno. Con semplici strumenti di trasparenza potremmo recuperare risorse straordinarie da destinare alla lotta alla povertà, alla riduzione delle diseguaglianze e ai servizi ai cittadini.
Restiamo un momento sui migranti. Lei si è fatta promotrice della riforma del Regolamento di Dublino che al momento obbliga i migranti a richiedere asilo nel primo paese in cui vengono identificati. Quali sono i cambiamenti che introdurrebbe la riforma per cui si batte? E cosa c’è da aspettarsi dopo la riunione dello scorso 28 e 29 giugno che, ricordiamo, non ha portato a nessun accordo?
Dopo due anni di difficile negoziato siamo riusciti ad ottenere una maggioranza storica di quasi due terzi del Parlamento su una riforma di Dublino che finalmente ne cancellerebbe l’ipocrisia originaria, quel criterio del primo Paese di accesso che ha lasciato le maggiori responsabilità sull’accoglienza ai Paesi ai confini caldi dell’Unione, e lo sostituirebbe con un meccanismo di ricollocamento permanente e automatico che da un lato valorizzi i legami significativi dei richiedenti coi vari Paesi, e dall’altro obblighi tutti i Paesi UE a fare la propria parte sull’accoglienza, anche a pena di conseguenze sui fondi strutturali. Abbiamo lanciato un messaggio chiaro ai Paesi più restii a mostrare solidarietà: non si possono volere solo i benefici di far parte dell’Unione, senza condividere le responsabilità che ne derivano. Purtroppo all’ultimo Consiglio europeo non ci hanno dato ascolto, nonostante la mobilitazione di oltre 200 organizzazioni europee e migliaia di cittadini in 173 piazze dell’Unione per chiedere solidarietà europea, ed hanno perso l’occasione storica di cambiare questo Regolamento ingiusto, rimandando ancora la decisione e optando per solidarietà solo volontaria e esternalizzazione delle frontiere. Ma queste politiche non hanno mai funzionato, e hanno prodotto nuove rotte più pericolose, sempre verso Italia e Grecia. La questione non è risolta e si risolverà solo con solidarietà e condivisone delle responsabilità, come peraltro già chiedono i Trattati europei agli articoli 78 e 80. La battaglia non è finita.
La speranza di un paese sono i suoi giovani, perchè hanno una vita davanti e perchè normalmente sono più aperti e curiosi delle generazioni precedenti. Da giovane donna e da politica, come vede i giovani italiani e i giovani europei? Pensa che si sentano rappresentati dalla politica? Hanno voglia di farla in prima persona o preferiscono altre forme di impegno civile? E credono ancora di poter cambiare il mondo?
Penso che l’Italia purtroppo non sia (ancora) un Paese per giovani. Non lo è nel mondo del lavoro dove i tassi di disoccupazione giovanili sono altissimi e mancano politiche di serio contrasto al fenomeno, mancano investimenti in ricerca e innovazione che sarebbero fondamentali per rialzarsi dalla crisi e puntare sulla produzione di qualità, più che sulla quantità. Ci si occupa tanto di immigrazione e non si parla di quanti sono i giovani italiani che stanno emigrando alla ricerca di opportunità più concrete per costruirsi un futuro dignitoso. Dopo anni di investimenti per la loro formazione, le politiche attuali li accompagnano dritti alla stazione, e questi ragazzi vanno a creare valore altrove. Non è un Paese per giovani nemmeno nelle istituzioni, con una politica che troppo spesso funziona per cooptazione. Credo che sia il momento di riprenderci la nostra voce. Tanti di noi, pur avendo altri progetti per la vita, si sono impegnati in politica quando hanno realizzato che se, sentendoci delusi e non rappresentati ce ne allontaniamo, altri continueranno a farla anche per noi e a nostre spese. Quindi non c’è altro modo se non quello di rimboccarsi le maniche e provare a prendere parte al cambiamento che vorremmo nelle nostre società. Credo che molti giovani vogliano ancora cambiare le cose, ma spesso si attivano fuori dai circuiti tradizionali della politica, si iscrivono a comitati e associazioni, guardando alla politica con diffidenza. E invece bisogna riallacciare questi fili, riappropriarsi di uno spazio che altrimenti nessuno ci darà. Le nostre generazioni, poi, hanno avuto la fortuna di nascere e crescere davvero europee, abituate a viaggiare in un intero continente senza confini e senza cambiare valuta. Questo sentirsi europei nella testa e nel cuore di moltissimi giovani è già realtà, e infatti in occasione del referendum sulla Brexit i giovani che hanno votato, anche se purtroppo pochi, si sono espressi in maniera inequivocabile per restare nell’Unione. E’ certamente più difficile per chi è in condizioni di maggior disagio condividere questo sentire, infatti bisogna dare una forte dimensione sociale all’Unione con strumenti europei di contrasto alla povertà, altrimenti non possiamo stupirci che in molti si disaffezionino al progetto UE. E servirebbero più consapevolezza e comunicazione delle opportunità europee da diffondere già durante il percorso scolastico con corsi di educazione civica anche europea.
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