Le disuguaglianze sono talmente enormi da essere invisibili, se non tra ultimi e penultimi che lottano per la sopravvivenza in un mondo in cui ognuno si rinchiude nella sua enclave e cerca di sopravvivere come può, senza aderire a una cittadinanza comune.
Intervista a Enrica Morlicchio*
Professoressa Morlicchio la frammentazione della società rende sempre più difficile darne una lettura in gruppi sociali a cui corrispondono comportamenti e aspirazioni che siano di riferimento per l’azione politica. Il Forum, considerando in modo non esclusivo il criterio della distribuzione del reddito, utilizza una ripartizione provvisoria, sicuramente insoddisfacente, ma che si è rivelata un utile strumento di lavoro. Ha suggerimenti per migliorarla?
Io ho trovato molto utile questa ripartizione perché in qualche modo riprende quella classica dell’ISTAT quando distingue tra famiglie sicuramente povere, appena povere, quasi povere, sicuramente non povere, ma quel tipo di classificazione era basata principalmente sui dati di consumo, mentre invece in questo caso si tiene conto anche della capacità di mobilitazione politica e dei problemi di rappresentanza. Oggi è in corso una crisi delle forme tradizionali di rappresentanza politica, vi sono soggetti che non sono o non si sentono rappresentati, che non hanno “voce”, nel senso di Hirschman, cioè di esercizio della protesta, e che in alcuni casi hanno anche una difficoltà nell’esercitare una “capacità di aspirare” (anche questo è un termine che prendo a prestito, nel caso specifico da Appadurai), cioè nell’immaginare un cambiamento della loro condizione e nell’individuare gli strumenti per poterlo realizzare. Un aspetto di cui non si tiene conto nella classificazione da voi proposta è invece il ruolo delle reti informali di supporto, che sebbene siano oggi sovraccariche, nei processi di vulnerabilità, di scivolamento verso il basso, di fragilizzazione, possono ancora rappresentare un fattore decisivo di differenziazione tra gruppi sociali, dando luogo a quella che Paugam definisce, a volte con una visione troppo romantica, la “povertà integrata” del Sud Europa, diversa dalla povertà squalificante e marginale dove è maggiore il sentimento di isolamento sociale e di stigmatizzazione.
Se guardiamo a quei cinque gruppi, chi erano in passato e chi sono oggi? Come sono cambiati i rapporti tra questi gruppi nel tempo dal dopoguerra in poi?
Sicuramente il cambiamento di maggiore rilievo è la presenza tra gli ultimi e i penultimi di una quota crescente di giovani che oggi vanno a costituire lo zoccolo duro della povertà. Anche negli anni ’70 e ’80 in Italia, così come in altre parti d’Europa, c’era stato un problema di disoccupazione giovanile, ma la condizione di marginalità rispetto al mercato del lavoro, cioè il fatto che i giovani avessero difficoltà a trovare una prima occupazione stabile e fossero in qualche modo congelati in una situazione di precarietà quando non di vero e proprio lavoro nero, era largamente compensata dalla famiglia. Questo tipo di povertà non emergeva così chiaramente come invece è accaduto nell’ultimo decennio, non tanto dopo la crisi del 2008, ma soprattutto dopo la crisi del 2011, quando c’è stata un’impennata dei tassi di povertà delle coppie con capofamiglia sotto i 35 anni. Questo tipo di povertà è emerso più chiaramente quando è caduto il velo della protezione familiare che tendeva a coprire questo disagio sociale. Nel momento in cui le stesse famiglie si sono trovate in forte difficoltà per la crisi, e il reddito del capofamiglia è stato incapace di reggere tutto il peso della sopravvivenza del nucleo familiare, è venuto fuori più chiaramente il disagio dei giovani, soprattutto quando questi hanno tentato di costituire una nuova famiglia e di intraprendere percorsi di autonomia, che si sono rivelati una causa di povertà. Perché la famiglia da un lato protegge, ma quando è l’unica forma di protezione, quando cioè mancano politiche di sostegno al costo dei figli, di edilizia pubblica, dei trasporti, se essa si indebolisce si alterano tutti i precari equilibri che su di essa sono stati costruiti. E’ vero che come dice Piketty la famiglia oggi conta più che mai e c’è un ritorno del capitalismo patrimoniale ma rispetto agli inizi dell’800 noi ci troviamo in una situazione alquanto diversa, perché oltre al ruolo molto forte dei patrimoni, è aumentato il gap tra le retribuzioni, tra chi è pagato di più e chi è pagato di meno. Mentre in passato questo divario veniva giustificato sulla base del merito, oggi questo criterio non può più essere evocato a meno che non vogliamo sostenere che Marchionne sia 437 volte più bravo di un operaio del gruppo che lui dirige, oppure che un’attrice, per quanto pagata meno di un collega uomo, sia più brava 500 volte in più della sua costumista, o che un calciatore di serie A sia molto più bravo di uno di serie B, ma molto più bravo in una misura che è quasi difficile da concepire (si veda ad esempio il recente ingaggio di 30 milioni di euro netti all’anno di Cristiano Ronaldo). Le disuguaglianze di retribuzione di tale portata non possono più essere giustificate sulla base del merito o del talento, ammesso che prima lo fossero, ma possono essere giustificate solo sulla base di un sistema di valori che legittima questo tipo di distanza nelle retribuzioni, perché si fa riferimento a dei criteri altri, per esempio alle relazioni di potere, o ai modi del funzionamento dello star-system, che sono tutti aspetti recenti. Infine, aggiungo un altro elemento di novità. La base territoriale dei più ricchi è diventata più aleatoria e quindi più difficilmente identificabile. In Italia c’è stato il capitalismo paternalista, perché in qualche modo l’imprenditore doveva assicurarsi il consenso dei lavoratori e della comunità dove andava a insediarsi perché questo creava un clima sociale meno conflittuale. Oggi questo legame territoriale è difficile da identificare, esso si è interrotto. Le distanze tra le classi sociali diventano sempre più incommensurabili, caratterizzate da un’assenza del legame sociale e questo rende meno visibili le disuguaglianze. La disuguaglianza è un concetto relazionale: io sono più ricco o più povero perché mi rapporto a chi sta sopra o sotto di me. Oggi invece le disuguaglianze sono quasi difficili da concettualizzare e contestualizzare per i motivi che abbiamo detto prima. E questo fa sì che i vulnerabili tendono a sentire come una minaccia non più i primi, ma gli ultimi e i penultimi che sono più a portata di mano e tendono a scaricare il loro risentimento sociale, la loro insicurezza su chi sta sotto, rendendo più difficili le alleanze di classe. Infine non credo alla de-responsabilizzazione degli ultimi e dei penultimi, ma credo invece sia un fenomeno che riguarda soprattutto i primi: non c’è più il legame con la comunità e quindi quello che accade non li riguarda. La metafora più potente è rappresenta dalle gated communities, cittadelle fortificate e autosufficienti nelle quali i ricchi si rinchiudono perdendo ogni contatto con il resto degli abitanti. Ed un fenomeno che non riguarda solo i paesi latinoamericani. Questi “ghetti esclusivi” si cominciano a vedere anche in Italia, ad esempio c’è un progetto di questo tipo alle porte di Milano. Se pensiamo a un fattore importantissimo di interazione tra le classi sociali che è stata la scolarizzazione in Italia, anche questo fattore è venuto meno. C’è una classe di giovani rampolli che si muove in un circuito sempre più internazionalizzato e può accedere a scuole di élite anche all’estero, e poi ci sono i ragazzi che appartengono agli ultimi e ai penultimi e spesso questi due gruppi non si incontrano neanche territorialmente. Quando ho fatto io il liceo non è che le disuguaglianze non ci fossero, c’erano e si vedevano, ma c’era un’interazione anche fisica, perché le persone si trovavano nello stesso spazio e questo significava, per chi aveva condizioni di partenza più sfavorevoli, immaginarsi la possibilità di una vita diversa o e costruire una rete di relazioni che poteva tornare utile in futuro. Oggi invece, non ci sono solo le classi ghetto ma si sono proprio le scuole ghetto e questo riduce le interazioni sociali e gli effetti positivi che producono. E’ come se si stesse sviluppando una società topologica in cui ognuno si rinchiude nella sua enclave e cerca di sopravvivere come può, senza aderire a una cittadinanza comune.
In questi anni si è imposta una narrazione feroce per cui se sei povero è colpa tua. Come è stato possibile? E come provare a sovvertire la narrazione stigmatizzante?
Questo non è un elemento di novità nella storia della povertà, perché da sempre i poveri sono stati oggetto di stigmatizzazione. Con la famosa legge del 1834 in Inghilterra si avvertì la necessità di distinguere tra poveri meritevoli (la vedova, la persona affetta da una disabilità che gli impediva di lavorare) e poveri non meritevoli, ovvero gli adulti considerati indigenti per colpa loro, quelli che non cercavano con sufficiente impegno un lavoro o non accettavano condizioni salariali date. Poi per fortuna con lo sviluppo del movimento operaio, con il riconoscimento del carattere involontario della disoccupazione e con lo sviluppo dei moderni sistemi di cittadinanza di tipo universalistico, che ha permesso che quello che era semplicemente un intervento stigmatizzante e selettivo rivolto soltanto ai poveri diventava di fatto un diritto di cittadinanza, queste forme di condanna morale si sono molto attenuate. Oggi ci troviamo in una fase che ci riporta indietro da questo punto di vista, e si è diffusa di nuovo l’idea che si è poveri per propria colpa, perché non ci si è attivati abbastanza, perché non si è stati sufficientemente previdenti. Questa concezione è molto evidente anche nelle misure di sostegno al reddito dei poveri che, anche nelle versioni più avanzate, penso all’applicazione della social card, prevedevano dei corsi di economia domestica in cui funzionari di banca andavano a spiegare ai poveri come gestire i loro magri bilanci, ignorando una serie di studi, come quelli dell’antropologa Mary Douglas che dimostrano come per i poveri sia difficile una pianificazione delle spese perché si muovono in un orizzonte di breve periodo non avendo entrate certe e continuative. Una ricerca che ho condotto molti anni fa con Dora Gambardella sulle famiglie povere multigenerazionali a Napoli mostrava come queste famiglie avessero dei consumi molto parsimoniosi. Pensiamo anche a gran parte della tradizione culinaria italiana basata su un riciclo di elementi poveri della cucina, in cui la mamma proletaria mette il piatto a tavola senza spendere troppo. Aggiungo infine un elemento sulla questione dei consumi dei poveri. Non bisogna farsi trarre in inganno dai consumi vistosi tipici dell’economia del sottosviluppo. In alcuni contesti è facile accedere ad alcuni beni attraverso il mercato dell’usato o a quello illegale, che non sono dunque beni necessariamente costosi, e che spesso hanno anche una funzione di sostegno emotivo. Mi colpì molto una scena del film Reality di Matteo Garrone nella quale i componenti di questa famiglia che si era recata a un matrimonio sfarzoso di quelli che si fanno a Napoli, volutamente eccessivi perché di solito rappresentano l’unico evento significativo nella vita, tornavano nella casa fatiscente piena di umidità e si toglievano questi vestiti pieni di piume e di paillettes e li depositavano sul letto come un attore si toglie un vestito di scena dopo aver recitato la sua parte. A volte si tratta di un’autorappresentazione che ha una funzione rassicurante e quindi questo tipo di consumi, che ci sono, vanno capiti e interpretati.
Il problema è dunque la conoscenza. Io all’inizio dei miei corsi faccio fare un esercizio ai miei studenti chiedendo loro di fare un esempio di famiglia povera. Perché si pensa che siano persone distanti da noi e poi si scopre che sono i nostri vicini, o persino la nostra famiglia. Essere poveri non significa vivere sotto i ponti significa non poter mandare i bambini in piscina, alla gita scolastica, avere una dieta insufficiente o inadeguata, non fare neanche una vacanza all’anno, andare in crisi se si rompe la lavatrice e non si può riparare. Non è così difficile identificarsi. Poi ci sono ovviamente le situazioni di marginalità sociale gravi verso le quali ci sentiamo più distanti, ma in generale la povertà è un taglio in un continuum di situazioni economiche e noi possiamo salire o scendere lungo questa distribuzione del reddito o del consumo, collocandoci di volta in volta al di là o al di qua di questo confine che di fatto è una convenzione statistica. Nessuna situazione di marginalità è definitiva e al tempo stesso nessuno può ritenersi al riparo dal rischio di scivolare verso il basso che è poi la paura più grande che la gente vive oggi.
Gli ultimi dati dell’ISTAT ci dicono che nel 2017 sono 5 milioni le persone in povertà assoluta e che dal 2016 al 2017 la povertà assoluta è cresciuta sia in termini di famiglie, 1 milione e 778mila. Se si considera quelli in povertà relativa la cifra sale a 9 milioni 368mila. Adesso c’è il Reddito di Inclusione, il REI. Quali sono gli aspetti più innovativi e quali i maggiori limiti?
Per la prima volta con il REI è stata introdotta una misura non eccezionale e non limitata territorialmente, e inoltre non si tratta di una misura categoriale, ma di una misura di universalismo selettivo perché è rivolta a una fascia di poveri ma non richiede requisiti aggiuntivi, come avere un figlio con meno di tre anni, o un familiare disabile. Un altro aspetto positivo è che c’è un impegno finanziario di rilievo. Il problema è che, date le dimensioni del fenomeno e la complessità del quadro, ci troviamo di fronte a una coperta troppo corta. C’è sempre la possibilità che alcuni gruppi sociali restino fuori perché il finanziamento non è commisurato al numero delle famiglie in povertà. Il Rei sconta il fatto che in Italia una misura di questo tipo è stata introdotta in ritardo, quando era più difficile a causa dei tagli lineari ai bilancio pubblico. Ciò è avvenuto anche per una certa timidezza della sinistra preoccupata di scontentare l’elettorato del Nord concentrando tutto l’intervento nel Mezzogiorno, dove vivono i due terzi dei poveri, e per una malintesa ottica produttivistica che non tiene conto del fatto che come dice il titolo di un bel libro di Chiara Saraceno, da voi già intervistata, “Il lavoro non basta”, cioè ci sono situazioni nelle quali l’occupazione per ragioni diverse non protegge dal rischio di povertà. Infine non tutti posso cercare attivamente lavoro: ci sono persone con un figlio adulto autistico, con un padre bipolare, una madre non autosufficiente che spesso vivono come recluse per i loro doveri di cura. Dopo la sperimentazione del RMI della fine degli anni Novanta, poi interrotta dal governo Berlusconi, il Dpef del 2008-2011 del secondo governo Prodi (se ricordo bene) menzionava il reddito minimo di inserimento che tuttavia non è stato poi finanziato. La proposta del M5s è sicuramente ambiziosa ma lontana da un vero reddito di base incondizionato o reddito di cittadinanza che dir si voglia, da dare a tutti, poveri e non poveri, una misura così avanzata da essere stata introdotta solo in Alaska dove viene finanziata con i proventi del petrolio ed è in realtà una forma di redistribuzione di tali profitti. C’è sicuramente un problema di finanziamento, e per questo motivo mi sarei mossa più in un’ottica graduale di estensione del REI, ma la proposta del M5s parte dal presupposto condivisibile di dare alle persone la possibilità di tirare il fiato e di sottrarsi a condizioni di sfruttamento lavorativo che deprofesionalizzano e non fanno uscire dalla povertà. Inoltre sono d’accordo con Di Maio quando dice che il finanziamento è anche una questione politica, di scelta di voci di bilancio considerate prioritarie, direi anche di scelte di giustizia sociale e in questa battaglia secondo me non andrebbe lasciato solo, per quanto i suoi alleati di governo siano a dir poco razzisti, a meno che non si voglia chiudere misure di questo genere agli immigrati. Il lavoro emancipa (ma occorre vedere come e a quali condizioni) ma ci sono casi in cui è necessaria l’assistenza, che non è una cattiva parola ed è una parola contemplata dall’articolo 38 della Costituzione: uno stare accanto che non significa sprecare denaro pubblico, ma sostenere le persone che in alcuni momenti della loro vita non possono farcela da sole.
Se volessimo aggiungere un ultimo elemento, propongo una riflessione sui tassi di occupazione femminile che nel mezzogiorno è ferma al 32,3%, il dato più basso di tutte le regioni UE. Tenendo conto dunque della complessità del fenomeno povertà, che idea si è fatta delle misure proposte dal Governo, nello specifico la flat-tax e il Decreto dignità che verrà discusso in Parlamento? Dove e come suggerirebbe alla politica di intervenire?
Noi ci troviamo oggi in una fase che è paragonabile a quella dell’inizio dello sviluppo della società industriale, una fase di grandi cambiamenti nella sfera produttiva e riproduttiva e in questo tumulto, come voi sottolineate, ci sono i perdenti e i vincenti. Le politiche di Salvini, benché sembrino rivolte al popolo, vanno nella direzione di accrescere il divario tra vincenti e perdenti perché la flat-tax è una misura che redistribuisce, ma al contrario di come dovrebbe fare. Il Decreto dignità invece, come ho già detto, ha il merito di affrontare il problema della flessibilità cercando di porvi un argine e di incentivare il passaggio a occupazioni più tutelate, con più o meno successo staremo a vedere, ma va inquadrato in un pacchetto di interventi di più ampio respiro di politica industriale e occupazionale che al momento sembra molto al di là da venire.
Credo dunque che il problema della povertà vada affrontato su diversi piani. Sono necessarie politiche di sostegno al reddito per chi non ha la possibilità di lavorare o di rientrare nel mercato del lavoro, come i soggetti adulti di oltre 50 anni. Poi sono necessarie politiche abitative, di sviluppo dell’occupazione, di miglioramento della qualità della retribuzione del lavoro. Nel mezzogiorno questo è un problema enorme. Sono d’accordo con Chiara Saraceno quando dice l’occupazione femminile è la migliore assicurazione contro la povertà, però quando questa produce un reddito aggiuntivo. Se guardiamo invece a quanto è successo negli ultimi anni, in Italia le famiglie con capofamiglia maschio sono diminuite di 90 mila unità, mentre quelle con capofamiglia donna sono aumentate di 130mila unità. C’è stata una vera e propria sostituzione. Ma questo dato non è positivo per il benessere delle famiglie, perché le donne spesso svolgono lavori atipici e a termine e in generale hanno salari più bassi. Famiglie con un reddito sicuro sono state dunque sostituite da famiglie con redditi da lavoro più bassi e più incerti. E credo che non si possa uscire fuori da questa situazione se non con una vera politica economica che finora è stata perseguita con grande difficoltà. Concludo dicendo che forse la sinistra deve fare un po’ di autocritica, perché l’idea di produrre una misura di sostegno al reddito non categoriale è molto lontana nel tempo. Era già contenuta nella relazione della Commissione Onofri del 1997 che si insediò per studiare delle soluzioni alla riorganizzazione della spesa pubblica. La povertà è stata spesso considerata un tema marginale, da poveracci meridionali che magari si prendono il sussidio e continuano a lavorare in nero. Non credo però che i il M5s abbia vinto nel Mezzogiorno per aver proposto il reddito di Cittadinanza. Chiunque trascorra una giornata di osservazione partecipante presso un assessorato delle politiche sociali del mezzogiorno può facilmente comprendere che sono due le richieste che arrivano dalle persone: la casa e il lavoro. Credo dunque che una politica occupazionale e di edilizia pubblica come quelle che sono state fatte in Italia in altre epoche siano due strumenti validi da considerare nella lotta alla povertà. Vorrei chiudere ritornando sul tema dell’occupazione femminile. Se si guarda ai dati dell’Istat si resta colpiti dal fatto che nel Mezzogiorno il tasso di occupazione femminile delle donne senza titolo di studio dell’obbligo è a livelli di esclusione lavorativa essendo pari al 12 % (19% per le donne che hanno anche la licenza media). A ciò si aggiunge un tasso di attività femminile altrettanto basso (rispettivamente pari al 17% e al 28%). Sono donne, spesso giovani donne, che si guadagnano da vivere lavando le scale dei palazzi, facendo iniezioni a domicilio o preparando cibi da asporto per le salumerie. Spesso fanno lavori così ultraprecari da non qualificarsi neanche come persone attive sul mercato del lavoro. Problemi straordinari richiedono interventi straordinari, politiche “molto sociali”, come dicono i francesi. Ecco io sono convinta che una politica che si rivolgesse a questo target specifico – giovani donne, residenti nel Mezzogiorno, con al più il titolo di studio dell’obbligo – produrrebbe sicuramente ricadute positive sul piano della lotta alla povertà e aiuterebbe queste donne a intravedere una via uscita diversa da matrimoni precoci secondo il classico vicolo cieco “dalla padella alla brace”.