L'”Economist” si interroga sulle analisi che indagano le disparità e la distribuzione della ricchezza. Ma dagli anni 80 in poi la tendenza è chiara e occorre intervenire. (Articolo uscito su Avvenire il 5 dicembre 2019)
Il settimanale The Economist, leader storico dell’informazione “liberale” internazionale, annuncia dalla copertina del suo ultimo numero che le disuguaglianze non sono ciò che sembrano (e di cui tutti parlano), sono “illusions“. Lasciamo ad altri il compito di analizzare il fine politico di questo annuncio, visto che, nell’imminenza del voto politico in Gran Bretagna e nel pieno della campagna per le primarie democratiche negli Stati Uniti, la raccomandazione che la rivista ne trae è di non imbarcarsi in politiche redistributive radicali. Ed entriamo in alcuni dei dati portati a sostegno della tesi e che riguardano le forti differenze fra le diverse stime delle disuguaglianze economiche.
Secondo l’Economist, negli Usa le stime delle disuguaglianze economiche di noti studiosi come Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman sarebbero squilibrate e verrebbero contraddette da studi più recenti fra cui quelli di due studiosi del Tesoro e del Congresso americano, Gerald Auten e David Splinter. In Europa, i dati sarebbero insufficienti per determinare le tendenze recenti delle disuguaglianze. Da queste evidenze, la rivista estrae il segnale di una grande “incertezza” su come stanno davvero le cose. Ma a ben guardare, e paradossalmente, proprio quei diversi dati e quegli stessi studi ci regalano anche una “certezza”: che dagli anni ’80 le disuguaglianze economiche sono cresciute sia in Usa che in larga parte dell’Europa. Vediamo.
L’Economist porta all’attenzione di un pubblico più vasto il dibattito accademico in corso da tempo sulla natura controversa delle stime di disuguaglianza di reddito (tutto ciò che una persona guadagna ogni anno dal lavoro, dall’attività di impresa o come ritorno di investimenti finanziari) e di ricchezza (il valore totale dei patrimoni immobiliari e finanziari al netto di tutti debiti). La rivista focalizza in particolare l’analisi su due misure assai usate di recente che confrontano quanto reddito e quanta ricchezza si concentrano nelle mani delle élites, ovvero dei segmenti più ricchi della popolazione (ad esempio, l’1% più ricco), portando l’attenzione sulla molteplicità di fattori alla base delle differenze di stima.
Come calcolare, ad esempio, i redditi non distribuiti direttamente ai lavoratori, ma pagati dai datori di lavoro (si pensi ai contributi pensionistici o per l’assicurazione sanitaria)? Come imputare altri redditi, come l’affitto che si sarebbe dovuto pagare per la casa in cui si vive se non se ne fosse stati proprietari o i redditi totali lordi di impresa? Le stime oggetto del confronto hanno la stessa base di partenza: i redditi fiscali e l’ipotesi che essi siano parziali a causa dell’evasione o di esenzioni fiscali. Nel valutare il tasso di evasione delle diverse fasce di reddito e nel distribuire tutti i redditi da pensione e da capitale (anche quelli evasi) si crea la prima forbice nelle stime.
L’incertezza aumenta se si cerca di misurare l’effetto redistributivo dello Stato, ripartendo fra le persone tutte le imposte e tasse dovute (anche quelle locali, sui consumi o patrimoniali), tutti i trasferimenti monetari di sostegno alle famiglie e quelli non monetari (come l’assistenza sanitaria pubblica) o addirittura la spesa per i beni pubblici di consumo collettivo (difesa, sistema giudiziario, istruzione etc.). E’ quest’ultimo importante ma complesso esercizio a suggerire, secondo alcune stime, che le disuguaglianze di reddito non sarebbero cresciute.
La differenza nelle stime invita certamente alla cautela nel loro uso e nelle previsioni dell’effetto delle politiche e a maggiori investimenti nelle basi informative. Ma dalle diverse stime emerge anche un messaggio univoco: a partire dagli anni ’80 negli Stati Uniti, l’operare del mercato produce una distribuzione dei redditi sempre più disuguale; e il complesso degli interventi pubblici non riesce a compensarlo che in parte. Ciò è confermato anche usando altre fonti come le indagini campionarie sulle famiglie e utilizzando indicatori di reddito e di disuguaglianza più “classici”, come l’indice di Gini relativo all’intera popolazione, si osserva nell’ultimo quarantennio un aumento delle disuguaglianze dei redditi di mercato, sia negli Usa sia in larga parte dell’Europa, Italia inclusa.
Osservazioni simili valgono per la concentrazione della ricchezza. Anche in questo caso, le pur diverse stime riportate dall'”Economist”, danno un segnale univoco: un aumento della concentrazione a partire dagli anni ‘80. Non solo negli USA, ma anche in Gran Bretagna (pur con stime assai prudenti ottenute senza imputazioni di ricchezza non osservata), Danimarca o Francia. L’Italia non viene menzionata nell’analisi perché non esistono ancora nel dominio pubblico analisi confrontabili con quelle di altri paesi. Ma le stime preliminari prudenziali esistenti ci dicono che la quota di ricchezza totale dell’1% più’ ricco risulta cresciuta di circa 6 punti percentuali dalla metà degli anni ‘90. La conferma di un’accresciuta disuguaglianza di ricchezza che implicitamente viene proprio dalla rivista britannica è un segnale importante per l’azione delle politiche, visti i forti effetti che tale disuguaglianza ha su tutte le altre disuguaglianze e la sua tendenza ad amplificarsi nel tempo.
“La causa dell’accresciuta disuguaglianza – scrive Anthony Atkinson (nel suo Inequality. What can be done? Disuguaglianza, che cosa si può fare?) – è spesso rintracciabile nei cambiamenti della bilancia del potere”. E’ la considerazione che ha indotto molti, e fra questi il Forum Disuguaglianze e Diversità in Italia, a proporre l’adozione urgente di misure re-distributive che facciano leva sul regime fiscale per favorire la creazione di pari opportunità e, soprattutto, di misure pre-distributive che affrontino le disuguaglianze “all’interno del mercato”, dove esse si formano, attraverso un ribilanciamento di poteri. E’ una linea di intervento che trova conferma nelle “certezze” implicite nei dati raccolti dall’Economist. Le “incertezze” portate alla luce dalla rivista devono essere di monito al disegno degli interventi re-distributivi e alla misura dei loro effetti, non certo costituire l’alibi per non agire con urgenza.