Il disagio sociale si è aggravato in tutti i paesi più “indebitati” creando una minacciosa frattura nell’ambito dell’Unione e la convinzione che l’Europa non sia tanto una risorsa quanto piuttosto il problema.
Un contributo di Giuseppe Bronzini*
Giova ricordare che, malgrado le sue inefficienze e spesso i suoi fallimenti, l’UE ha come obiettivo non solo quello di combattere la povertà -ma in una dimensione più ampia e più ambiziosa- anche di debellare il rischio di “esclusione sociale” che notoriamente si fonda su parametri più ampi ed esigenti di varia natura, capaci di intercettare ogni elemento di mortificazione della dignità della persona secondo un approccio più complesso che trascende la mera dimensione (pur cruciale) del reddito disponibile. Questo elemento già segnala come l’UE riesca ancora a raggiungere livelli molto avanzati di elaborazione progettuale (a carattere spesso innovativo), ma non risultati all’altezza di quanto prefigurato. Gli studi sulla politiche di contrasto del rischio di esclusione impostati dalla fine degli anni 90 sulla base del cosiddetto metodo aperto di coordinamento (MAC) sono chiaramente all’avanguardia a livello globale non solo per la loro impostazione che riporta nel raggio di attenzione il lavoro “indecente”, sottopagato, precario e discontinuo (i cosidetti workers poor), ma per il loro carattere riflessivo e propriamente sovranazionale in quanto mettono a confronto metodico le varie strade nazionali cercando di selezionare le best practises nel tentativo di generalizzarle (attraverso una sorta di moral suasion europea), pur tenendo conto delle specificità nazionali ove la competenza è rimasta dei singoli stati. Quanto emerge da questo confronto, allargato agli attori sociali, è leggibile negli annuali Joint Report sulla social inclusion, il che rappresenta almeno un sentiero documentale per capire a grandi linee quel che andava fatto e quel che si è riusciti a fare. Nel dibattito sulla “costituzionalizzazione“ dell’UE (che ha portato al Trattato di Lisbona) si pensò di rafforzare insieme alla dimensione sociale anche quella correlata della lotta contro l’esclusione sociale in una duplice direttrice: da un lato la fortificazione del MAC attraverso le specifiche previsioni di una competenza in generale dell’Unione di coordinamento (artt. 4 e 5 TFUE) e dall’altra l’istituzione di una specifica ipotesi in materia di lotta all’esclusione sociale (art. 153 TFUE), sia pure all’unanimità e priva di potestà normative.
Su questa base, nelle Raccomandazioni rivolte all’Italia annualmente dalla CE e dal Consiglio, sono state sempre segnalate le vistose carenze del sistema di protezione sociale e il numero abnorme di persone al di sotto di un reddito sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa e non coperte da un reddito minimo garantito (RMG) come previsto dall’art. 34 della Carta dei diritti. Vanno segnalati gli importanti tentativi di arrivare ad una sorta di codificazione soft dei principi di flexicurity, cioè della formula di con la quale l’UE vuole assicurare una sicurezza esistenziale per tutti (nel dicembre del 2007) ed il varo di una nuova strategia generale chiamata Europa 20-20 che introduce il nuovo obiettivo di riduzione in dieci anni del 20% dei soggetti a rischio di esclusione sociale; inoltre nel TUE (art. 3) la lotta all’esclusione sociale figura tra gli obiettivi delle sue politiche. Si tratta di una complessa trama non banale, se ricordiamo anche l’art. 34 della Carta dei diritti, che certamente ha esercitato una notevole pressione per i paesi più vistosamente privi di efficaci strumenti di contrasto della povertà (quelli del Sud Europa) ad introdurre schemi di tutela più idonei ed una certa contaminazione reciproca dei modelli di protezione sociale (almeno sino al 2008), alimentata anche dal funzionamento del mercato comune le cui regole (connesse dalla Corte di giustizia alla nozione di cittadinanza europea) conducevano ad un’apertura dei welfare nazionali all’accesso dei migranti comunitari. Non può quindi dirsi che l’Unione sia stata manchevole sul piano dell’elaborazione, che rimane a tutt’oggi la punta di diamante della riflessione contemporanea sulla povertà ed i modi migliori per combatterla. Né può dirsi che non si siano cercati strumenti per avvicinare in qualche modo le idee ai fatti: ciò che ha invece impedito un successo su questo fronte è stato il deflagrare della crisi economica internazionale, che si è manifestata nel vecchio continente come crisi della valuta comune – l’euro – per la cui salvaguardia l’Unione non aveva predisposto alcun sistema istituzionale valido a fronte della speculazione e del rischio di default degli stati più deboli.
Quanto accaduto è noto; la Germania ha imposto l’adozione di nuove istituzioni come il MES (meccanismo europeo di stabilità) unitamente a ferree regole di disciplinamento degli stati più esposti (soprattutto il Fiscal compact). Le politiche europee nel loro complesso sono state reindirizzate energicamente verso obiettivi di riduzione dei deficit attraverso la filosofia dell’austerity che finisce con il puntare sul dimagrimento della spesa sociale (comunque questa è stata la scelta per i tutti paesi assistiti dal MES o vicini al default). E’ vero che la CE non ha mai esplicitamente sostenuto che dovessero ridursi le misure di RMG (nel breve periodo l’unico strumento capace di debellare la povertà) ma è anche vero che nessun alleggerimento del carico dei “compiti a casa” è stato consentito per queste particolare finalità sociali; la Germania ha anche escluso qualsiasi socializzazione dei debiti nazionali. Alcuni paesi come il Portogallo o l’Irlanda non hanno ridotto i loro schemi di RMG, ma nel complesso il taglio delle spese sociali ha in tutti i paesi in difficoltà costituito la ricetta dominante creando ulteriori povertà e disagio sociale e annientando l’idea, fino al 2005 piuttosto diffusa, che l’Unione potesse garantire un futuro di prosperità per tutti i suoi paesi membri. La solidarietà promessa nei Trattati ed implicita nel termine di “Unione” è sembrata anche simbolicamente calpestata in un’Atene priva di cibo, medicinali e persino moneta sino alla resa agli organi di Bruxelles.
Si è così sacrificata l’idea stessa di una politica europea (cioè condivisa e implementata collettivamente) di contrasto della povertà attraverso strumenti efficaci sottoposti quantomeno al controllo ed alla verifica degli organi di Bruxelles. Chi poteva ha continuato le politiche di flexicurity; i paesi del Nord sono a posto con la tabella della Strategia 20-20, i disoccupati sono ai minimi termini e i più deboli sono tutelati da sistemi di RMG in qualche paese anche generosi. Sembra essersi spenta persino la spinta sui meno virtuosi; ormai sono blandi i richiami all’Italia che non ha- unico tra i 28- un RMG minimamente coerente con le indicazioni sovranazionali (60% del reddito mediano da lavoro dipendente) e che solo nel 2017 ha introdotto un miserabile sussidio da povertà estrema condizionato a vessazioni ed umiliazioni di ogni genere per i pochi fortunati (con un bassissimo take-up). L’Italia è così scivolata a raddoppiare il numero dei suoi poveri assoluti dal 2008 che hanno raggiunto il vergognoso numero di 5 milioni; ma è indubbio che il disagio sociale si è aggravato in tutti i paesi più “indebitati” creando una minacciosa frattura nell’ambito dell’Unione e la convinzione che l’Europa non sia tanto una risorsa quanto piuttosto il problema. Rimediare a questa catastrofica situazione non è certamente facile: occorrerebbe, almeno su questo decisivo fronte, un contropiano che punti a riacquistare la fiducia degli europei attraverso misure comuni ma anche dirette e quindi visibili, attraverso un bilancio (eventualmente dell’eurozona) condiviso e risorse proprie con tasse sovranazionali capaci di sostenere realistici progetti ma importanti sul piano simbolico che tornino a far parlare di solidarietà europea. I più ascoltati studiosi di politiche sociali europee hanno da tempo evidenziato come esempi virtuosi quelli di un sistema unico contro la disoccupazione e il finanziamento (per lo meno di una sua parte) di un RMG europeo (eurodividend); se arrivasse proprio da Bruxelles un assegno minimo agli esclusi (come nel 1941 ipotizzavano Rossi e Spinelli nel loro Manifesto) forse si potrebbe risalire ancora la china.