L’autonomia differenziata creerebbe un quadro delle politiche complesso e frammentato e livelli di cittadinanza dispari all’interno del paese
A cinquanta anni dal suo avvio, nel pieno di una pandemia che ne ha messo in luce non poche criticità, il regionalismo italiano merita un complessivo ripensamento. Sia per le persistenti difficoltà degli ultimi venti anni dopo la riforma del 2001, plasticamente mostrati dalle centinaia e centinaia di sentenze della Corte Costituzionale, sia per le incertezze e confusioni degli ultimi mesi, nel disegno e nell’applicazione delle norme a tutela della salute pubblica. Con grande equilibrio: senza nostalgie di uno stato centralizzato, ma senza eccessi di decentramento.
Respingendo però l’ideologia del sovranismo regionale, secondo la quale più poteri si danno alle regioni meglio è per i cittadini. Non è così. La vita dei cittadini può migliorare con un regionalismo ben temperato. Nel quale le competenze siano messe chiaramente a fuoco; i poteri centrali assumano, a differenza di quanto da tempo avviene, le proprie responsabilità nel disegno degli indirizzi generali e nell’attivazione di eventuali poteri sostitutivi; siano finalmente definiti e garantiti i diritti di cittadinanza di tutti (i “livelli essenziali delle prestazioni” ex art. 117 della Costituzione); graduate in base agli effettivi fabbisogni le risorse per regioni ed enti locali, prevedendo le necessarie perequazioni per quelle a minore capacità fiscale nella spesa corrente e nelle dotazioni strumentali (ex art. 119 Costituzione).
Un vasto programma. Con il quale però confligge frontalmente l’iniziativa politica sul regionalismo differenziato promossa dal 2017 dalle amministrazioni regionali di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, poi seguite da altre.
Perché confligge? Per due grandi motivi. Per la straordinaria estensione delle richieste di competenze che sono state formulate; come da tempo documentato, esse coprono quasi tutti i campi di azione pubblica, e produrrebbero un quadro ancora più frammentato e complesso delle politiche. Si può naturalmente discutere, nell’ottica di cui si parlava all’inizio e per migliorare l’efficacia dell’azione collettiva, anche di decentrare ulteriori competenze specie amministrative alle regioni. Ma non si capisce proprio perché solo ad alcune e non ad altre e quindi senza le procedure di revisione del riparto dell’articolo 117, dando vita a poteri centrali sfilacciati per alcuni e a grumi di sovranità per altri. Escludendo poi certamente l’ipotesi di regionalizzare la scuola, dai programmi scolastici ai docenti, principale e fondamentale infrastruttura nazionale. O le grandi reti infrastrutturali, che si vorrebbero spezzettare in signorie locali. O alcuni rilevanti ambiti, a cominciare da quello ambientale, dove assai più che norme regionali differenti sono necessari grandi e comuni indirizzi comunitari.
Confligge poi per il desiderio politico di differenziare la spesa per i servizi in base alla ricchezza dei territori, definendo per legge livelli di cittadinanza dispari all’interno del paese. Richiesta esplicita nelle deliberazioni, mai ritirate, del Consiglio Regionale del Veneto. In mille dichiarazioni dei leader leghisti: solo però quando parlano nelle “loro” regioni, ai “loro” elettori, dato che pudicamente ignorano la questione quando si esprimono altrove; scolpite in molte bozze di intesa, sia quelle definite dal governo Gentiloni sia quelle promosse dalla responsabile leghista della materia nel governo Conte I. I responsabili politici della regione Emilia-Romagna hanno sempre espresso convinzioni diverse; ma anch’essi sono stati pudichi (cioè del tutto silenti) quando si stavano definendo regole sperequate che avrebbero avuto valore anche per loro.
Il tema è lì per restare. E’ figlio dell’indebolimento del sentimento nazionale; della sfiducia nella capacità collettiva del paese di farcela; dell’egoismo di quartiere, di città, di territorio. Di tanti anni di predicazione politica, largamente penetrata nell’intero arco dello schieramento parlamentare, secondo cui chi ha più reddito, chi vive in territori più forti, dato che paga più tasse “merita” di più. Sovvertendo così le basi costituzionali della nostra Repubblica. Va contrastato apertamente. Senza arroccarsi a difesa dell’attuale sistema. Ma avviando una “manutenzione straordinaria” del nostro regionalismo che abbia come stella polare non i poteri di alcuni o di altri, o i soldi per alcuni e non per altri, ma i diritti dei cittadini da soddisfare, l’efficienza della spesa da garantire, l’efficacia dell’azione pubblica a tutti i livelli.