Riflessioni dopo il primo seminario di co-progettazione della Scuola per la giustizia sociale e ambientale
Una delle risposte classiche alla domanda “Perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti?” è quella di Werner Sombart. Tra i fattori elencati dall’autore, c’è la credenza nei percorsi di mobilità sociale individuale che ostacolerebbe la formazione di una coscienza di classe collettiva. La percezione della propria autonomia e le conseguenze sulle credenze che gli individui hanno su diseguaglianze e giustizia sociale, sono i temi del contributo che la professoressa Cristina Bicchieri[1] ha presentato nel corso del primo seminario di co-progettazione della Scuola per la giustizia sociale e ambientale del ForumDD.
Perché l’aumento delle disuguaglianze non è stato seguito da una mobilitazione collettiva per una maggiore giustizia sociale? Bicchieri ipotizza che maggiore è il controllo che le persone sentono di avere sulle proprie vite, quindi sulla loro autonomia, minore è la disuguaglianza di reddito che percepiranno e più eque giudicheranno l’esistenza delle disuguaglianze percepite. Le persone che hanno un maggiore senso di autonomia hanno maggiori probabilità di credere che le differenze di reddito siano dovute al merito e non alla fortuna. Più si ritiene che la disuguaglianza sia giusta, meno si è motivati a cercare o prestare attenzione a informazioni sulla disuguaglianza che potrebbero smentire tale convinzione. Il risultato è che si crede che ci sia meno disuguaglianza. Fornire informazioni sulla quantità di disuguaglianza “vera” non cambia la percezione delle persone dell’equità della disuguaglianza. Così come non cambia le loro preferenze per la ridistribuzione. Che fare, quindi?
Il contributo del Professore Marco Faillo[2] articola una risposta. La necessità di affrontare problemi di cooperazione, coordinamento e giustizia distributiva implica una maggiore attenzione ai processi di deliberazione collettiva. Conta la presenza di una maggiore attenzione alla partecipazione dei destinatari e al coinvolgimento in processi di deliberazione. La scelta della procedura di deliberazione non è neutrale, ma influenza sia la scelta dei principi e delle regole, sia la loro effettiva applicazione. Influenza, quindi, il modello mentale che guida le nostre decisioni.
I modelli mentali, del resto, sono soggetti a distorsioni sistematiche funzionali, come spiega il contributo della Professoressa Simona Sacchi[3]. Gli stereotipi sono, anzitutto, utili. Essi incorporano convinzioni condivise in un dato contesto sociale rispetto a un dato gruppo, forniscono linee guida sul comportamento sociale e servono a proteggere la legittimità percepita del sistema, presentando in una luce migliore coloro che godono di uno status elevato e in luce peggiore coloro che hanno uno status più basso. Tali forme di discriminazione rafforzano la gerarchia sociale («hai quel che meriti») e generano un circolo vizioso.
Ma perché le persone che appartengono a classi sociali svantaggiate non si ribellano per cambiare il sistema? La prospettiva interazionista sostiene che il nostro concetto di Sé è un riflesso della valutazione e delle considerazioni che gli altri fanno di noi. È una profezia che si auto-avvera: un individuo agisce sulla base di false credenze in modo tale che tali credenze vengono confermate nella realtà. Una seconda prospettiva è la giustificazione dell’organizzazione sociale esistente anche a spese degli interessi personali e di gruppo. Nelle società occidentali, le persone appartenenti a classi sociali basse accettano maggiormente le gerarchie sociali, tendono ad adottare delle spiegazioni che giustificano il loro svantaggio e considerano le spiegazioni meritocratiche più legittime di quanto esse siano in realtà. Il livello di giustificazione del sistema è superiore in quelle società in cui l’iniquità sociale è maggiore.
Il cambiamento del senso comune è quindi, secondo la Professoressa Sacchi, declinabile a tre livelli analitici:
1. macro: riduzione delle disuguaglianze, cambiamento dei ruoli sociali, comunicazione pubblica, ideologia;
2. meso: conflitto-intergruppo, discriminazione, confronto sociale;
3. micro: stereotipizzazione, auto-stereotipizzazione, auto-efficacia e senso di controllo, motivazioni.
Lungo questa tripartizione si inserisce la relazione dell’autore di questo post[4]. A livello macro, il neo-liberismo si è legittimato con la narrazione della “fine della storia”, la sensazione diffusa che il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile e che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente. Si sono così diffuse narrative dove la competizione e l’attivazione individuale sono centrali, che l’intervento pubblico e la dimensione collettiva sono relegate a un ruolo ancillare rispetto alla logica della competizione. Il neo-liberismo reale, però, ha generato una società basata sul principio di eccellenza: tanto nei mercati, che nei regimi di competizione amministrata, si sono concentrate le risorse/premi/potere su pochi individui, organizzazioni, territori considerati eccellenti. La dicotomia vincente-perdente fornisce il criterio sociale di classificazione predominante. Negli spazi aperti dalla distanza tra la narrazione della «fine della storia» e la realtà delle disuguaglianze e dei bisogni insoddisfatti, si inserisce la «narrazione dell’eternità». Il discorso proveniente dal «basso» che contrappone a quello elaborato dall’alto la narrazione dell’origine anziché quella della fine. Tutto ciò si presenta con una netta connotazione spaziale: i luoghi che non contano sono il terreno di coltura per il “noi mancante”, dove sembra assente il sentimento per il quale io partecipo a una condizione comune a quella di altri, cooperando e lottando per cambiarla.
Allora come si ricostruisce il “noi”? Qui la rilevanza del livello “meso”: è l’organizzazione sociale e spaziale della sfera pubblica (partecipazione, rappresentanza, luoghi intermedi) a costituire la premessa per l’articolazione di “impegni congiunti” orientati alla realizzazione di un futuro condiviso. Il tema posto riguarda quindi l’agency collettiva, non tanto l’azione collettiva o l’attore collettivo. Il “noi” implica la capacità di promettersi reciprocamente di “fare” qualcosa insieme per realizzare uno nuovo stato del mondo. È, nelle parole di Appadurai, una manifestazione della capacità di aspirare delle persone. A livello micro, il cambiamento del senso comune non passa dalla comunicazione razionale orientata all’intesa, dalla migliore informazione o dagli incentivi. Il futuro delle società democratiche si costruisce non solo o non tanto in base a valori comuni. Servono, piuttosto, luoghi, spazi e soprattutto oggetti intermedi o “oggetti politici mobilitanti”. Servono “quelle cose” capaci di mobilitare a monte le persone intorno a pratiche sociali il cui effetto a valle dovrebbe consistere nella sedimentazione di significati e valori condivisi, che diventerebbero così la conseguenza dell’azione collettiva, non la loro premessa. Servono, per questo, nuovi oggetti politici, non un nuovo soggetto politico. Servono, come prima scritto, spazi fisici, piattaforme, oggetti socio-tecnici, dispositivi mobilitanti, per istruire e organizzare una serie di eventi e rituali vicini a conflitti sociali ed economici, a ridosso di controversie sull’uso degli spazi e delle risorse, intorno ad asimmetrie di potere tra “chi ha” e “chi non ha”, vicino alle persone e nei luoghi di vita, lavoro e consumo, accanto alle possibili relazioni tra diritti economici e civili. Tessendo reti di significati tra bisogni quotidiani e soluzioni collettive. Senza però invocare valori pre-costituiti, le cui condizioni di efficacia richiedono condizioni strutturali e organizzative lontanissime dagli assetti socio-politici in cui siamo oggi immersi.
[1] Cristina Bicchieri, S.J.P. Harvie Professor of Philosophy and Psychology, University of Pennsylvania, Director, Center for Social Norms and Behavioral Dynamics
[2] Marco Faillo, Professore associato presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli Studi di Trento
[3] Simona Sacchi, Professoressa di psicologia sociale all’Università Bicocca di Milano
[4] Filippo Barbera, Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro all’Università di Torino