Una ricerca recente evidenzia una forte correlazione tra un sindacato forte e minori disuguaglianze di reddito. Parliamo del ruolo del sindacato in questo momento storico con Tiziana Bocchi, Segretaria Confederale UIL*.
Qual è oggi secondo lei il valore più importante del sindacato?
Il valore più importante del sindacato sono le “persone”, nel senso più ampio e profondo del termine. Siamo convinti, infatti, che oggi, come è sempre stato, il ruolo fondamentale del sindacato è quello di saper aggregare le lavoratrici e i lavoratori e tutelare i diritti delle persone. Questo significa, da un lato mettere insieme interessi diversi, trasformando le istanze individuali in rivendicazioni collettive, dall’altro, offrire risposte ai problemi reali delle persone sia all’interno dei confini aziendali che fuori da questi. Lo strumento tramite il quale continuiamo a farlo è la contrattazione a tutti i livelli. Negli ultimi anni, infatti, seppur la crisi economica ha fatto sentire con forza la sua presenza, siamo stati capaci di aumentare i diritti e il salario delle persone che rappresentiamo, offrendo al contempo prestazioni di welfare integrativo e realizzando forme di previdenza complementare. Ci siamo stati, abbiamo esercitato il nostro ruolo. E credo che finché continueremo a farlo potremo dare un contributo importante allo sviluppo e alla crescita del Paese.
In un’epoca di lavoro liquido e frammentato, come si riconnettono le esigenze e le istanze dei lavoratori – spesso così diverse – per farle convergere in una battaglia collettiva?
È senza dubbio vero che le trasformazioni che stanno attraversando il nostro sistema produttivo dovute, soprattutto, all’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione dei processi, stanno avendo anche conseguenze sull’organizzazione del lavoro e quindi sulle modalità stesse con le quali si possono, innanzitutto, cogliere e poi rappresentare le istanze delle lavoratrici e dei lavoratori. Volendo fare un esempio concreto, se pensiamo al cosiddetto smart working o al lavoro tramite piattaforme digitali, è chiaro che l’assenza, in tutto o in parte, di un luogo fisico nel quale i lavoratori possono riunirsi non è un fattore irrilevante in termini di rappresentatività sindacale. A ciò, si deve aggiungere la liquidità, o meglio precarietà, del lavoro. Un fenomeno che interessa, in modo particolare ma non esclusivo, i giovani che sempre più hanno carriere discontinue e sono costretti spesso a cambiare attività, troppe volte senza che questo indichi un avanzamento nella loro carriera. Entrambi questi fattori segnano una difficoltà oggettiva nel trovare momenti di dialogo con le lavoratrici e i lavoratori: l’assemblea che ancora oggi nelle imprese è il momento in cui avviene il proficuo scambio tra rappresentati e rappresentanti al fine, appunto, di trasformare istanze individuali in battaglie collettive non riesce più a raggiungere, almeno attraverso le modalità tradizionali, tutti i lavoratori. Questo non significa che la UIL, o il sindacato Confederale in generale, hanno deciso di lasciar fuori una parte del mondo del lavoro, ma anzi, in particolare negli ultimi anni, sempre più si è cercato di adottare nuove forme di rappresentanza. Un sindacato 4.0, attivo sui social, così come nelle piazze, che comunica con le persone anche prese singolarmente, le raggiunge nei momenti di interruzione lavorativa. In ultima analisi, è la stessa tecnologia che, se da una parte ha causato dei mutamenti nel mondo del lavoro dall’altro ha offerto nuove possibilità e modalità di rappresentanza degli interessi. E’ chiaro, però, e questa è una consapevolezza fondamentale del sindacato italiano, che nulla può sostituire lo scambio diretto con le persone, il guardarsi negli occhi, il dialogare non solo con le parole ma anche con i gesti, l’ascoltarsi reciprocamente. È per questo che le nostre sedi sono aperte, sempre, per qualunque lavoratore, a prescindere dal tipo di attività svolta, e costituiscono ancora oggi un luogo di ritrovo e comunicazione per chiunque ne abbia bisogno.
10 anni di crisi: in tanti hanno perso il lavoro, e sono sempre di più quelli che pur lavorando sono poveri. Per i giovani italiani le cose non sono migliorate, le donne soprattutto nel mezzogiorno sono spesso disoccupate, i lavoratori migranti spesso si trovano in condizioni di vero sfruttamento e l’automazione minaccia alcuni settori produttivi. Da dove si parte per rilanciare collettivamente il lavoro in termini pratici e simbolici?
Si deve partire dall’aumento degli investimenti pubblici e privati, dalla definizione di un nuovo progetto di politica industriale per il Paese che, partendo dai fattori produttivi e realizzando le infrastrutture necessarie, sappia individuare le missioni strategiche premianti e su di esse convogliare le adeguate risorse. In sintesi, dalla crisi si esce davvero solo aumentando la capacità del nostro sistema di creare ricchezza e redistribuirla. Perché è da qui che passa anche la possibilità di creare nuova e stabile occupazione. Il lavoro, infatti, non è solo reddito ma dignità e libertà, affermazione di sé e garanzia di democrazia. Un Paese che non investe nel lavoro, che non aumenta le tutele, che non premia l’apporto che il singolo riesce ad offrire, non rischia solo di diventare sempre più povero ma di sfaldare le proprie fondamenta sociali e civili. Le persone disoccupate, o sfruttate, o abbandonate dallo Stato si sentono sole, smarrite, e sono quindi facili all’odio e alla rabbia verso una società che giudicano iniqua. Il lavoro infatti è anche comunità e senso di appartenenza. Da questo punto di vista, l’unità ritrovata tra Cgil, Cisl e Uil è un simbolo forte di come solo mettendo insieme, ritrovando un’ azione comune, facendo ciascuno la propria parte, le lavoratrici e i lavoratori potranno tornare a conquistare quei diritti e quelle tutele che in questi anni sono stati persi. Occorre riscoprire il senso profondo del fare sindacato, e cioè il mettersi insieme per conquistare una giustizia sociale (syn – dike). Gli anni della disentermediazione, dell’individualismo sfrenato che si è poi tradotto nell’”uno vale uno”, in cui l’”io” si è sostituito al “noi”, hanno causato l’indebolimento della capacità di azione del mondo del lavoro. Bisogna ripartire dalla parola “insieme” perché solo capendo e conoscendo le difficoltà dell’altro, aprendosi ad esso, si potrà forse intendere che in parte sono le nostre stesse difficoltà, quelle di ciascuno di noi. Alle prese con una vita frenetica e sempre più veloce, che non lascia spazio alla cura di sé e a quella delle persone care, che marginalizza ancora la genitorialità come fosse un costo aziendale e non una risorsa del Paese sulla quale investire, che considera la disabilità o la non autosufficienza come un dramma da chiudere nel contesto familiare e non come una responsabilità collettiva alla quale far fronte. Che vede il salario come un mero compenso e non come una leva economica fondamentale per la crescita e lo sviluppo. Per cambiare tutto questo, e non solo, serve il sindacato. Perché come insegna un antico proverbio africano: “Se vuoi andare veloce vai solo, ma se vuoi andare lontano vai insieme”.