Intervista a Stefania Ghidoni, socia dell’impresa Art Lining che produce interni per cravatte. Un caso pilota di azienda rigenerata dai lavoratori nel 2009 che ha fatto da apripista per altre aziende in Emilia Romagna.
Di cosa si occupa Art Lining e a che punto è della sua vita di impresa?
Art Lining è nata nel 2009. Ha compiuto dieci anni di attività e si occupa da sempre di produzione di interni per cravatte, dell’anima della cravatta: tessuti che hanno una tecnologia legata alla capacità di poter dar forma alla cravatta. E’ una nicchia del settore tessile, non ci sono molti competitor e quindi ha trovato una sua strada dopo il fallimento dell’azienda precedente che aveva comunque una storia ventennale ed era leader a livello mondiale.
Art Lining ha deciso di variare un po’ la produzione e interpretare quali erano stati gli errori imprenditoriali precedenti e collocarsi in un mercato ancora più attento, scegliendo di collocarsi nella fascia alta della clientela, quella delle grandi firme. L’azienda precedente era nata nel 1984, aveva attraversato il boom economico, e aveva produzioni importanti. Poi, già prima che arrivasse la crisi nel 2009, aveva incontrato alcune problematiche legate ad errori imprenditoriali e aveva subito la concorrenza, in particolare quella asiatica, che aveva portato via una buona fetta di mercato.
Come è nata Art Lining?
Art Lining è nata su idea del curatore fallimentare che aveva visto che durante la procedura di fallimento c’era ancora richiesta da parte della clientela di più alto livello di continuare nell’attività. Il curatore ha cercato inizialmente un imprenditore che avesse voglia di investire, ma c’erano i primi albori della crisi e non avendo trovato un imprenditore, ha deciso di lanciare l’idea ai dipendenti, ancora in attività durante la fase di procedura fallimentare, di associarsi in cooperativa e di prendere inizialmente in affitto il ramo d’azienda che poi successivamente abbiamo acquistato.
Cosa è cambiato da quando da lavoratori dipendenti siete diventati soci dell’azienda?
Dei dodici dipendenti attuali, dieci di noi sono soci. Siamo stati un vero e proprio progetto pilota in Emilia Romagna. Siamo stati messi in contatto dai nostri consulenti con Legacoop e Coopfond che ci hanno aiutato a livello di consulenza e finanziario in questo percorso di cooperazione perché noi non avevamo nessun conoscenza di queste attività. Siamo partiti nel gennaio 2009. Importante, anzi fondamentale per noi è stata la non interruzione dell’attività. Se avessimo interrotto le grandi firme si sarebbero collocate su un altro fornitore concorrente e poi difficilmente sarebbero tornati da noi.
Come è avvenuto il processo?
Il curatore ha creato un esercizio provvisorio di pochi mesi che portasse l’attività fallimentare fino all’apertura di questa attività. Il fallimento è stato a settembre e noi a gennaio abbiamo aperto. In due, tre mesi abbiamo messo in piedi tutto il progetto. Non è stato facile, e magari abbiamo commesso qualche piccolo errore, ma abbiamo studiato a fondo le dinamiche. Abbiamo fatto un po’ da apripista in questo settore. Abbiamo sperimentato anche la formula del nostro capitale con l’anticipo della mobilità, poi la differenza di capitale, di 10.000 euro a testa, è stata sottoscritta con un’integrazione con trattenuta nella busta paga del 5%. Abbiamo avviato un percorso di finanziamenti per acquisire il magazzino per poterpartire e dopo un anno e mezzo abbiamo comprato il ramo d’azienda e dopo quattro anni abbiamo acquistato anche l’immobile. Nonostante si tratta di interni per cravatte, e quindi si pensi a qualcosa di molto artigianale, in realtà l’azienda è dotata di un magazzino e di strumentazione di taglio molto all’avanguardia. Abbiamo dotato gli impianti di immagazzinamento di programmi automatizzati. E’ stato necessario quindi acquistare l’immobile.
Cosa è cambiato nella vita in azienda dei lavoratori e delle lavoratrici?
I ruoli in azienda non sono cambiati se non per gli amministratori che sono oggi le chiavi dirigenziali dell’azienda. E’ cambiato tutto a livello di mentalità. I primi sei mesi sono stati difficilissimi. L’attività non è decollata immediatamente: i clienti che hanno spinto e appoggiato l’azienda, volevano capire se l’azienda fosse in grado di fare quello che faceva precedentemente un imprenditore. Noi eravamo tutte figure operative, nessuno prima aveva autonomia e potere decisionale. Dovevano credere nella nostra capacità manageriale. Questi primi sei mesi ci hanno però consentito di fare un’analisi per capire come l’azienda dovesse evolversi. La crisi ha portato in generale una trasformazione per tutte le aziende. Abbiamo portato l’azienda su un livello completamente diverso da prima: noi non siamo più fornitori di interni per cravatte, ma abbiamo stabilito un rapporto di partnership con tutti i nostri clienti. Diamo un servizio di logistica, di campionistica, facciamo per loro le prototipie, diamo un servizio di magazzino, organizziamo i loro laboratori e abbiamo decisamente alzato la qualità. Ci siamo immessi in un nuovo mercato certificandoci a livello internazionale come produttori tessili biologici, cosa che non è scontata per una piccola azienda di un settore di nicchia. Oltre a questo, abbiamo avviato un progetto di internazionalizzazione. Lavoriamo molto con le grandi firme italiane (tra gli altri Fendi, Gucci, Marinella) che sono portate a essere molto sensibili al discorso etico-sociale e ambientale e condividono il lavoro con aziende che hanno questi valori. Noi abbiamo portato l’azienda su questo livello. Nonostante oggi si faccia ancora fatica, e soprattutto quello della cravatteria è sicuramente un settore abbastanza difficile e sicuramente non un settore trainante della moda, noi siamo ancora qua e siamo contenti e abbiamo superato i dieci anni di attività. La problematica più sensibile è quella di responsabilizzare le persone e farle crescere in questo modo e avere cura dei rapporti interpersonali. È importante capire cosa è una figura di socio e quella di dipendente. Noi avendo esperienza ventennale di lavoro insieme, c’erano dei rapporti che sono cambiati un po’ perché ci sono adesso delle relazioni diverse, ed è importante tenerne conto perché l’obiettivo aziendale è quello del posto di lavoro. Non c’è un obiettivo imprenditoriale con la massimizzazione dei guadagni.
Come si può rendere più semplice e fluido, secondo lei, il ricorso all’opzione Workers Buyout quando un’impresa fallisce?
Credo che queste attività debbano essere favorite non tanto con delle sovvenzioni economiche, ma soprattutto con delle sovvenzioni professionali perché una persona che nasce come operaio o dipendente ha molte difficoltà a entrare in un ruolo diverso. Per noi è stato fondamentale, all’avvio dell’attività, la formazione con un consulente molto in gamba che ha aiutato noi e successivamente anche le altre cooperative del territorio a capire certe dinamiche e a sviluppare alcune competenze. Noi ci siamo pagati questa formazione da soli, e poiché crediamo sia uno strumento essenziale senza il quale non saremmo potuti andare avanti, occorrerebbe sollevare i lavoratori da questa spesa.