di Andrea Morniroli e Marco Rossi Doria.
Questo articolo è stato pubblicato sull’edizione di Napoli di Repubblica venerdì 6 marzo 2020.
Fa bene Paolo Siani, nel suo articolo sulla morte del giovane Ugo Russo a richiamare con forza la necessità che il confronto esca dagli approcci semplicistici e giudicanti, ad iniziare dal ribadire che su un problema così ampio e multifattoriale come quello della povertà educativa che segna in negativo la vita di tanti e tante giovani della nostra città è troppo facile scaricare ogni volta la responsabilità sulla scuola. Scuola che nei fatti, pur con tutte le sue contraddizioni, grazie ai suoi dirigenti e insegnanti rappresenta, soprattutto nelle periferie e nei territori più difficili, uno dei pochi presidi pubblici che ancora dialogano con aree di popolazione che vivono non solo gravi condizioni di marginalità e povertà, ma anche la sensazione di non aver davanti alcuna prospettiva di cambiamento e uscita da tali difficoltà.
Un ruolo fondamentale quello delle istituzioni scolastiche – come di molti soggetti del privato sociale, del civismo attivo e del volontariato laico e religioso – in aree della città che proprio nella mancanza di riconoscimento istituzionale e nelle condizioni di grave degrado sviluppano dentro di se quella rabbia e quel rancore verso la cosa pubblica che poi esplode in modo violento, in forme insopportabili e comunque mai giustificabili, come è successo nella devastazione del pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini o nella stesa nei confronti della caserma Pastrengo.
Così come è bene sottolineare che in città, ogni giorno ci sono decine di educatori e educatrici che lavorano con migliaia di ragazze e ragazzi in un intreccio sempre più forte tra pubblico e privato, tra scuola e territorio, tra attività di prevenzione e interventi di presa in carico complessa e personalizzata sui giovani e le giovani che fanno più fatica, dove la sofferenza vissuta rende più complesso e a volte impossibile lo stare a scuola. Soprattutto quando la scuola stessa cede alla tentazione di “pensarsi come una sorta di luogo finalizzato all’istruire alunni vissuti come scatole vuote”, piuttosto che proporsi come “luogo accogliente in grado di educare alla capacità di scoprire e valorizzare competenze e talenti necessari a esercitare libertà e ad essere davvero persone consapevoli dei loro diritti e doveri di cittadinanza”.
Ma nel contempo, se è vero che occorre riconoscere e valutare con serietà quello che già si sta facendo è altrettanto vero che tutti i diversi laboratori e interventi che vengono messi in campo da scuole, enti locali, organizzazioni del civismo attivo, del volontariato e del privato sociale, finiscono per non bastare perché manca a monte una seria programmazione di politiche nazionali. Una mancanza che se da un lato svilisce le pratiche in una funzione di mero contenimento e non di concreto cambiamento delle condizioni di contesto, d’altro lato determina un cattivo uso delle risorse.
Perché non si tratta solo di spendere in modo adeguato ma anche di spendere bene, mentre invece in alcuni casi la sensazione è che piuttosto che innestare i finanziamenti dentro una programmazione di senso e prospettiva, co-costruita sulla base di analisi e ascolto attivo dei territori, si sia privilegiata la strada dei finanziamenti a pioggia, centrati più sulla costruzione di consenso che non sulla concretezza dell’impatto sui fenomeni.
Quindi è urgente sia riportare il rapporto tra investimenti in istruzione e PIL almeno entro la media dell’UE, sia ridefinire a livello nazionale un programma strutturato di politiche che partendo dal tema della povertà educativa e più in generale dalle condizioni di esclusione sociale e lavorativa di milioni di ragazze e ragazzi siano in grado di attivare in modo diffuso e concertato con i territori e in primis con comuni e città metropolitane, interventi di rigenerazione sociale, urbana e culturale.
A Napoli, da subito, va aperto un laboratorio pubblico che senza scorciatoie e con l’ausilio dei tanti e delle tante che già lavorano nel settore, promuova e attivi un’agenda di programmazione territoriale, ben coordinata e strutturata nel tempo, che sappia riconoscere e valorizzare le buone pratiche educative già esistenti, specie in aree di frontiera e di sperimentazione, dove insegnanti, famiglie, studenti, dirigenti, generano discontinuità e trasformazioni, al momento isolate e rilevanti solo per i contesti specifici. E, allo stesso tempo sia in grado di tradurre le buone pratiche in politiche sostenendo le comunità educanti, attraverso l’alleanza e la condivisione di risorse e competenze fra scuole, privati e organizzazioni di cittadinanza attiva.
Per concludere, se è vero che un bambino o una bambina che nasce in una famiglia medio-borghese ha a disposizione, nei primi tre anni di vita, dieci volte più parole di quelle a cui riesce ad accedere un suo coetaneo in una famiglia seguita dai servizi sociali territoriali. Se è vero che il fallimento formativo di massa impedisce in partenza a milioni di giovani di poter pensare a un futuro migliore e incide in negativo fino all’1,5% sul PIL del Paese. Se è vero che un più di un milione di bambine e bambini sono in povertà assoluta e quasi il doppio in povertà relativa, allora significa che programmare e investire sullo sviluppo educativo locale e sulla rigenerazione sociale, urbana e culturale delle periferie non solo deve essere assunto come priorità assoluta dalla politica ma diviene presupposto indispensabile alla costruzione di concrete e stabili condizioni di benessere, giustizia e sicurezza per tutte e tutti.