L’analisi del voto nel periodo che va dal 1994 al 2018 evidenzia come le disuguaglianze abbiano un peso rilevante sui comportamenti elettorali. Il fenomeno dell’astensione è legato alla disuguaglianza, alla polarizzazione dei redditi, alla povertà e alla disoccupazione. Il consenso per i partiti di governo è invece sensibile alla crescita della ricchezza media.
Le elezioni regionali del gennaio prossimo in Calabria e soprattutto in Emilia Romagna – entrambe regioni amministrate dal Partito Democratico – saranno un banco di prova importante per valutare la capacità di ripresa del centrosinistra, dopo le recenti sconfitte registrate in Umbria e alle elezioni europee di maggio. Per capire le ragioni profonde della crisi che ha investito i partiti che si sono alternati al governo del paese durante la Seconda Repubblica, ossia il PD (e i suoi predecessori) e Forza Italia, è necessaria un’analisi di lungo periodo, che consideri l’evoluzione del voto alle elezioni politiche dal 1994 al 2018. Ricordiamo che il 4 marzo 2018 il PD si è fermato al 18,8% dei voti e FI ha raccolto un magro 14%, cedendo il ruolo di principale partito di destra alla Lega (17,4%). Il Movimento 5 Stelle si è affermato come primo partito con il 32,7% dei voti. Infine, oltre il 27% degli aventi diritto non ha espresso il proprio voto.
La distribuzione territoriale del voto ha restituito l’immagine di un’Italia divisa, con il M5S predominante al Sud e la Lega al Nord, mentre il PD e FI sono risultati competitivi esclusivamente nelle regioni della cosiddetta Terza Italia e nelle grandi città. L’astensione è stata più alta al Sud e nelle aree metropolitane.
Quali sono le ragioni strutturali che possono contribuire a spiegare questi risultati? In questo articolo anticipo alcuni risultati di uno studio condotto con Francesco Bloise e Mario Pianta su Inequality and elections in Italian regions in cui viene analizzata a livello regionale l’associazione fra alcune variabili economiche – disuguaglianza, variazioni nei redditi, livelli di ricchezza, precarizzazione del lavoro, disoccupazione – e le scelte di voto nelle sette elezioni politiche tenutesi tra il 1994 e il 2018. Qui concentrerò l’attenzione su due variabili dipendenti: la quota di elettori che si è astenuta e la quota di elettori che ha votato per l’insieme dei partiti che definisco “mainstream” per essersi avvicendati al governo negli ultimi 25 anni. Più specificamente, la categoria comprende FI (e il Popolo della Libertà nel 2008 e nel 2013); il PD e i partiti di centrosinistra che lo hanno preceduto (il Partito Democratico della Sinistra nel 1994 e nel 1996, i Democratici di Sinistra nel 2001 e Uniti nell’Ulivo nel 2006); i partiti centristi minori che hanno fatto parte delle maggioranze di governo nell’arco di tempo considerato. Riferendoci alla quota di elettori, anziché a quella dei votanti, abbiamo potuto tenere conto degli effetti dell’aumento dell’astensione su ogni variabile dipendente della nostra analisi.
L’indagine è basata su un nuovo dataset regionale, creato integrando i risultati elettorali delle elezioni politiche per la Camera dei Deputati con i dati amministrativi dell’INPS sui redditi dei lavoratori dipendenti (LoSai database) e con l’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane (Survey on Household Income and Wealth, SHIW).
Per semplificare la descrizione degli andamenti regionali, abbiamo effettuato una tripartizione fondata sulle similitudini della struttura economica e sulle dinamiche della disuguaglianza:
1) le regioni metropolitane (Piemonte, Lombardia, Liguria e Lazio), contraddistinte dalla presenza delle grandi metropoli produttive (Torino, Milano, Genova e Roma) e caratterizzate dai più alti livelli di reddito e alta disuguaglianza;
2) la Terza Italia (Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche), caratterizzata da livelli di reddito medi e disuguaglianza più bassa rispetto alle altre aree;
3) il Sud (Abruzzo-Molise, Campania, Puglia, Basilicata-Calabria, Sardegna e Sicilia), caratterizzato dai redditi più bassi e dalla maggior disuguaglianza.
Quale associazione esiste fra questi andamenti strutturali e l’astensione e il voto per i partiti mainstream? Nelle due figure che seguono presentiamo la posizione delle regioni italiane (divise in tre gruppi) nelle sette tornate di elezioni politiche considerate (1994, 1996, 2001, 2006, 2008, 2013, 2018).
Figura 1. Associazione tra quota di astenuti e lavoratori dipendenti in condizione di povertà relativa nelle regioni italiane (1993-2018)
Figura 2. Associazione tra voto per i partiti mainstream e patrimonio familiare netto nelle regioni italiane, (1993-2018)
A partire da questi dati descrittivi, abbiamo stimato un modello econometrico ad effetti fissi per verificare l’influenza della disuguaglianza e di altri fattori economici sul comportamento elettorale nelle regioni italiane. In primo luogo emerge una relazione negativa fra il voto per i partiti mainstream e la disuguaglianza di reddito misurata dall’indice di Gini: un aumento della disuguaglianza di 10 punti percentuali è associato a una diminuzione di 6 punti percentuali del voto per i partiti mainstream. Il patrimonio netto medio delle famiglie è il fattore che più chiaramente orienta il voto per i partiti mainstream, i cui governi hanno in effetti favorito politiche di riduzione della tassazione sulla ricchezza (come la liberalizzazione degli investimenti finanziari, l’eliminazione della tassa sulla prima casa, ecc.).
La crescita dell’astensione si associa alla disuguaglianza di reddito, alla presenza di un’elevata quota di lavoratori dipendenti che si collocano nel 10% più ricco dei redditi nazionali e di un’elevata quota di lavoratori poveri (con redditi sotto il 60% della retribuzione mediana nazionale), la quale è viceversa correlata alla fuga dai partiti mainstream. L’astensione è associata anche alla compressione verso il basso dei redditi medi. La precarizzazione del lavoro e la disoccupazione sono correlate sia all’aumento dell’astensione, sia alla diminuzione del voto per i partiti mainstream, confermandosi fattori che incidono sulla sfiducia nel sistema politico.
La nostra ricerca mette in luce che la disuguaglianza e le condizioni economiche sono importanti per comprendere l’evoluzione del comportamento di voto in Italia, con conseguenze anche sulla geografia del sostegno ai partiti. La sfiducia nella rappresentanza che si riflette nel non-voto è guidata dalla disuguaglianza, dalla polarizzazione di redditi e da alti tassi di precarietà e disoccupazione. All’opposto, il sostegno ai partiti che hanno governato nel periodo dal 1994 al 2018 è consistente solo nelle regioni in cui cresce la ricchezza netta media, mentre la concentrazione di lavoratori poveri e la presenza di redditi medi più bassi, lavori part-time e maggiore disoccupazione sono tutti fattori che allontanano gli elettori dai partiti mainstream. Se ne potrebbe ricavare che una ripresa elettorale del Partito Democratico dipenda da una decisa inversione delle politiche economiche e sociali finalizzata alla redistribuzione della ricchezza e all’incremento dei servizi pubblici.