Stimoli e opportunità dalle proposte del ForumDD (autore del pezzo l’economista Leonardo Becchetti).
Il documento del Forum Disuguaglianze Diversità e le proposte di policy contenute sintetizzano il contributo e il percorso di un gruppo molto importante di studiosi ed addetti ai lavori del nostro paese con cui mi sono trovato spesso a lavorare assieme o a collaborare e per i quali ho grande stima. Perché il documento sia più generativo è utile una reazione e un dibattito più ampio a cui provo a contribuire nella prospettiva dell’economia civile ritrovandomi in moltissime delle proposte e formulando alcune considerazioni dialettiche su altre.
Una prima cosa da segnalare sono le proposte innovative in materia di quello che chiamo “il voto col portafoglio” degli appalti pubblici. Un potere molto importante nel sistema economico è oggi di fatto quello dei consumatori/risparmiatori perché le loro scelte sono una delle due parti del mercato. Questo potere però è disperso e non organizzato ma può esserlo molto di più in alcuni specifici casi (acquisti pubblici e azione dei fondi d’investimento) lavorando in direzione dell’interesse stesso dei cittadini e delle istituzioni ad un sistema economico con maggiore dignità del lavoro e tutela dell’ambiente. Nel sistema economico una quota molto significativa dei consumi è realizzata da parte delle amministrazioni pubbliche che hanno per definizione obiettivi di progresso umano e sociale.
Votare col proprio portafoglio in queste scelte vuol dire dunque non cadere in contraddizione con i propri principi. Proprio in questo periodo c’è il rischio che assieme alla necessaria semplificazione delle procedure di appalto per evitare blocchi e paralisi si “getti il bambino con l’acqua sporca”, ovvero si sacrifichi sull’altare della sburocratizzazione l’attenzione fondamentale a criteri di responsabilità sociale ed ambientale da tempo introdotti nelle regole d’appalto (con i criteri minimi ambientali e non solo). Le proposte del Forum DD propongono (oltre alla formazione della PA fondamentale nel caso dei funzionari delle stazioni appaltanti) due importanti innovazioni nella direzione auspicata. La prima sono gli appalti pre-commerciali orientati a sostenibilità ambientale e sociale, ovvero un voto col portafoglio pubblico per stimolare innovazione sostenibile. Si tratta di un punto chiave perché le evidenze empiriche dimostrano che gran parte dei progressi in materia ambientale avvengono attraverso l’innovazione. Non avrebbe senso d’altronde pensare che oggi un’azienda investa tempo ed energie per un prodotto o processo che viaggia in direzione contraria non anticipando che la questione ambientale e sociale diventerà più pressante e la regolamentazione, soprattutto in campo ambientale, diventerà più urgente. Lo stimolo pubblico può essere decisivo da questo punto di vista anche se il costo di queste gare d’appalto che incorporano una fase di ricerca in parte finanziata dallo stato può essere maggiore dei tradizionali appalti commerciali. Ed è uno stimolo che tra l’altro darebbe un incentivo importante ad orientare il sistema produttivo nella direzione del futuro rendendolo più competitivo.
Sulla stessa linea l’idea di allocare fondi di ricerca già previsti guardando ai criteri di responsabilità sociale ed ambientale. Su questo fronte come economia civile (facendo seguito ad un progetto in corso di svolgimento con ANCI) riteniamo che il criterio di “generatività” (ovvero di valutazione dell’impatto sociale ed ambientale e della capacità di attivazione dei cittadini dei progetti come criterio di selezione) si integri bene con questa proposta. Sarebbe da aggiungere in questo ambito a mio avviso un accento sull’introduzione della responsabilità fiscale nelle gare d’appalto come elemento premiale. Far vincere una gara ad un’azienda che utilizza pratiche aggressive di elusione fiscale vuol dire premiare chi sottrae gettito proprio a quell’amministrazione creando un incentivo a fare altrettanto per le altre imprese. Fondamentale sviluppare nel prossimo futuro l’attenzione alla responsabilità fiscale d’impresa dopo quella sociale ed ambientale.
Un’ altro punto chiave del documento, del tutto condivisibile, è quello di evitare i rischi di “transizione asimmetrica” che hanno portato alla rivolta dei gilet gialli in Francia introducendo elementi di progressività nelle ecotasse. La citazione di Alex Langer a questo proposito (“la conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”) appare calzante.
Molto interessante e condivisibile l’idea di obbligare le imprese a partecipazione pubblica a perseguire obiettivi di carattere sociale ed ambientale facendole diventare una sorta di benefit corporation. La via è praticabile nella misura in cui la quota di partecipazione pubblica e le regole di governance rendano possibile imporre una sorta di “golden share” orientata ai fini della sostenibilità. Sarebbe opportuno rinforzare questo punto integrandolo con una proposta per l’introduzione di KPI (Key Performance Indicators) di carattere ambientale e sociale per i bonus dei manager in tutte le imprese, una proposta che i fondi d’investimento etici nel mondo stanno portando avanti con forza. Molto delicato e difficile ovviamente imporre una tale proposta dall’alto per il rischio di alimentare una race to the bottom della sede legale delle imprese. Importante però fare pressione dal basso con il voto col portafoglio dei fondi (e i maggiori del mondo tra cui BlackRock e Nordea, per citare solo alcuni tra i principali, condividono questa preoccupazione) affinchè questo avvenga.
Rilevante e significativo nel documento l’intento agevolare finanziariamente gli investimenti in operazioni di workers buyout che rispondono alla logica di creazione di imprese con governance più orientata al benessere degli stakeholders nei momenti di crisi aziendale.
L’accento sull’utilizzo dei dividendi del progresso tecnologico per il finanziamento dei beni comuni è la via giusta per trasformare i necessari processi di concentrazione ed aumento di diseguaglianze che derivano senza correzioni di policy dall’innovazione tecnologica (e sicuramente dalla quarta rivoluzione industriale in corso) in un benessere sociale diffuso evitando anche reazioni di stampo “luddista” contro il progresso tecnologico. Anche qui resta da affrontare il problema del race to the bottom, ovvero del rischio che le politiche aggressive di elusione fiscale delle grandi multinazionali vanifichino i propositi. C’è bisogno di rinforzare pertanto i meccanismi di contrasto all’elusione adottando forme di web tax con imputazione presuntiva di utili sul volume delle transazioni per evitare i ben noti processi di profit shifting. Il tema delle regole premiali sugli appalti in materia di responsabilità fiscale citato in precedenza potrebbe rappresentare anch’esso un importante strumento di deterrenza alla race to the bottom fiscale.
L’aumento dei canoni versati allo stato da chi utilizza a fini commerciali risorse naturali date in concessione dallo stato è una direzione più volte auspicata in varie sedi (si pensi alle finanziarie di Lega Ambiente degli ultimi anni) per arrivare a livelli più vicini di paesi importanti come il Regno Unito che, pur essendo paladini dell’economia liberale, applicano canoni ben più elevati dei nostri i quali riflettono in ultima analisi una debolezza del decisore pubblico nei confronti delle imprese beneficiarie. Posto dunque che l’obiettivo è sacrosanto viene da domandarsi da dove può arrivare la forza di consenso politico e sociale per realizzare l’obiettivo. Al di là di dichiarazioni d’intenti di addetti ai lavori competenti e sensibili non si è riuscito infatti sino ad oggi a mobilitare l’opinione pubblica su questi temi come invece risulterebbe molto utile.
Di particolare rilievo a mio avviso lo sforzo di proposta su quello che ritengo il problema numero uno del paese rappresentato dall’inefficienza della Pubblica Amministrazione. La direzione giusta sollecitata dal documento è quella di passare dalla correttezza formale alla valutazione per obiettivi finalizzata ai traguardi sostanziali che i progetti si propongono. A questo proposito l’incentivo alla discrezionalità in condizioni d’incertezza (con due meccanismi proposti fondati su un rapporto virtuoso tra certificatore e amministratore) mi pare particolarmente interessante.
Di grande fascino e rilevanza il tema della coprogettazione partecipata legata alla valorizzazione dei luoghi che richiama il problema grave di un paese in crisi demografica come il nostro delle aree interne. Nella globalizzazione i territori sono chiamati a riscoprire il loro genius loci e a valorizzarlo al massimo per essere attrattivi. Non mancano oggi forme di vivacità e partecipazione dal basso che cercano di far fronte a declino e degrado. Una tra tutte il regolamento (Labsus) per i patti tra cittadini e PA nella gestione dei beni comuni. Tutto da scrivere il capitolo di eventuali forme d’incentivo (e della loro giustificazione) che creino maggiori condizioni di vantaggio in questa direzione. La proposta è anche uno stimolo per mettere maggiormente a tema nella CSR il valore del luogo, cosa oggi ancora non così acclarata.
L’auspicio della nascita di piattaforme digitali dove non ci sia un dominus che estrae valore dagli altri contributori o non si appropria di tutto il valore creato è assolutamente condivisibile. Anche qui ci si domanda in che modo il pubblico possa favorire la nascita e lo sviluppo di tali piattaforme che dovrebbero comunque svilupparsi per iniziativa privata.
Il tema della dotazione economica per i giovani diciottenni è molto interessante e vuole segnare un riequilibrio rispetto alle misure più recenti (quota 100) e in genere all’orientamento complessivo del nostro welfare che non appare a favore delle nuove generazioni. Forse una dotazione per la formazione risponderebbe maggiormente all’urgenza dei giovani di risalire la scala delle competenze essenziale nel futuro di sistema globale industry 4.0 per evitare di essere schiacciati verso il basso in una zona ad alta concorrenza con il lavoro a basso costo poco specializzato e l’automazione. L’idea va anche confrontata con la proposta (a mio avviso preferibile) dell’universal child care benefit che sposta la dotazione al momento della nascita dei figli andando così ad incidere positivamente anche sulla questione demografica. Gli stessi estensori della proposta sottolineano che, a differenza di quasi tutte le altre proposte avanzate nel documento, quella della dotazione ai diciottenni prevede oneri importanti per le finanze pubbliche (stima di 8,8 miliardi all’anno). La possibilità di trovare spazio passa per percorsi (revisione del catasto, inasprimento di lotta all’evasione) di non immediata e facile realizzazione.
La proposta di introdurre una tassazione dell’eredità più significativa rispetto all’attuale va incontro ad un chiaro obiettivo di aumento della progressività fiscale. Il problema chiave da questo punto di vista è soprattutto quello del consenso sociale. Come ben sappiamo viviamo una fase storica in cui gli aumenti di tasse non sono popolari nel paese. Forse legarli ad uno scopo ben preciso (ad esempio il tesoretto per i giovani o all’universal child care benefit) può aiutare.
Un’idea interessante ma controversa è quella della costruzione di consigli di cittadinanza nelle imprese. La proposta vuole puntare ad un obiettivo comune all’economia civile e perseguito anche con molte delle precedenti proposte di Forum DD e discusse in questo articolo. Quello di orientare il comportamento delle imprese dalla mera massimizzazione del profitto (che produce inevitabilmente in moltissimi casi esternalità sociali ed ambientali negative) alla creazione di valore economico sostenibile in un’ottica di contemperamento e soddisfacimento degli interessi di diversi stakeholders. E’ un dato di fatto che le regole del nostro sistema economico sono sbilanciate verso il profitto e il benessere del consumatore mettendo di fatto in secondo piano la dignità del lavoro (soprattutto di quello poco specializzato che non riesce a difendersi da solo come quello specializzato) e la tutela dell’ambiente e creando di fatto il meccanismo che produce ed aumenta le diseguaglianze. Ci si domanda però come è possibile imporre questa forma di governance alle imprese private, sapendo che la tradizione italiana è fatta di imprenditori che appaiono ostili anche al solo ingresso di rappresentanti dei lavoratori nei cda.
Un’ultima questione a mio avviso controversa ma sulla quale è importante e prezioso discutere è quella del salario minimo (ipotizzato dagli estensori della proposta a livelli piuttosto elevati e se non sbaglio leggermente superiori a quelli dell’attuale proposta di governo). Ipotizziamo l’esistenza di due tipi d’imprese. Una che ha ampi margini di profitto e che potrebbe mantenere ottimi margini anche alzando i salari sopra il livello minimo. Un’altra che galleggia sulla linea di sopravvivenza e che tiene i salari bassi per necessità e per la durezza della concorrenza con imprese di altri paesi che possono utilizzare lavoro a basso costo. Con la legge sul salario minimo il secondo tipo d’impresa ha tre possibilità: andare in nero, delocalizzare o rischiare di soccombere nella concorrenza spesso con competitor di altri paesi che hanno salari più bassi.
Se è vero che salari minimi esistono in molti paesi d’Europa, è anche vero che in Italia il combinato della contrattazione salariale con i sindacati di categoria e l’estensione anche alle aziende senza sindacato di quei contratti coprirebbe con più elasticità e flessibilità (ad es. contrattazione di secondo livello legata alla produttività, benefici ai lavoratori non in termini di aumento salariale ma di smart work, diritto alla formazione e voucher defiscalizzato da utilizzare sulle piattaforme digitali che offrono diversi servizi di welfare) e con meno rischi di rigidità e ricadute negative l’esigenza di promuovere la dignità del lavoro. A mio avviso appare più a prova di delocalizzazione come strumento di difesa della dignità del lavoro una rimodulazione dell’imposta sui consumi che premi/penalizzi filiere a seconda della qualità del lavoro tenendo conto dei diversi standard di potere d’acquisto e di tenore di vita. I dati e le informazioni sono ormai disponibili ed utilizzati quotidianamente dai fondi d’investimento nelle loro scelte di voto col portafoglio.
A mò di considerazione conclusiva penso che l’obiettivo comune sia quello di correggere le distorsioni di un sistema che mettendo al centro i profitti e il benessere del consumatore finisce per subordinare quasi inevitabilmente a questi obiettivi la tutela dell’ambiente e la dignità dei lavori (soprattutto quelli meno specializzati che non possono difendersi da soli). La soluzione a mio avviso non può che essere a quattro mani (mercato, istituzioni, cittadinanza attiva e imprese responsabili). E le policies sono chiamate a stimolare la svolta con un robusto mix di stimoli ed incentivi alla partecipazione dal basso dei cittadini, alla responsabilità d’impresa che sia a prova di localizzazione e non produca l’effetto indesiderato di fuga delle imprese verso paesi dove costi e condizioni sono più favorevoli. Ogni linea di policy del futuro deve dimostrare di essere “a prova di delocalizzazione”. L’altra sfida decisiva è quella della sostenibilità delle proposte a livello di consenso sociale e politico. Politiche in grado di superare con successo questi due test sono quelle che più facilmente potranno essere implementate con probabilità di successo.