Allo stato attuale una riforma radicale appare non solo possibile ma anche necessaria. Solo così si potranno rilanciare politiche pre-distributive e re-distributive idonee ad assicurare a tutti le capabilities necessarie per il pieno sviluppo umano di ciascuno.
Intervista a Fabrizio Mastromartino*
Partiamo da quanto scriviamo nel Wikiforum sul rapporto inversamente proporzionale tra disuguaglianza e giustizia e libertà sostanziale delle persone. Noi aggiungiamo anche un altro punto, ovvero che “L’ingiustizia non è solo l’esito delle disuguaglianze odierne. Ne è anche la causa. All’origine delle disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento con le quali oggi conviviamo, vi sono cambiamenti profondi avvenuti nel modus operandi delle principali istituzioni sociali, compresi mercato e imprese, i quali violano l’uguaglianza di considerazione e rispetto dovuta a ciascun individuo.” E’ d’accordo con questa idea?
L’ingiustizia sociale è certamente non solo effetto ma anche causa della disuguaglianza attuale, in un circolo vizioso difficile da spezzare proprio perché generato dal modo in cui le istituzioni sociali stanno trasformando le nostre società.
Credo che l’immagine che meglio esprime questa trasformazione sia quella usata da Michael Sandel, secondo cui “siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato” (Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli 2013). Lo spazio del mercato – che è luogo ben più del potere che della libertà – si è allargato a dismisura, determinando un’espansione non solo quantitativa ma anche qualitativa. Ciò che è cambiato è il ruolo sociale assegnato al mercato, non più strumento di organizzazione dell’attività produttiva bensì elemento pervasivo della nostra vita, in cui persino le relazioni sociali sono alterate a sua immagine e modellate secondo le sue regole. Così come tutto ciò che è colato nello stampo della legalità diviene diritto indipendentemente dalla sua conformità a un qualche ideale di giustizia, ciò che è posto nel dominio del mercato diviene merce quale che sia lo statuto etico di ciò che è oggetto di scambio.
Il processo di mercificazione oggi in atto è evidente in particolare nel mondo del lavoro, dove la precarizzazione e lo smantellamento delle tutele dei lavoratori hanno rinsaldato il carattere strutturalmente asimmetrico del rapporto lavorativo incrementando il potere dei datori di lavoro a svantaggio e per lo sfruttamento dei lavoratori. Inoltre, si sta lasciando che il mercato assorba nel suo dominio beni e servizi essenziali per una vita dignitosa (come la salute, l’istruzione ecc.), con il rischio che si torni indietro a una “cittadinanza censitaria”, cioè a una società in cui i diritti dipendono dalle distribuzioni di mercato.
È urgente una decisa inversione di rotta.
Si rileva dunque una tacita accettazione sociale della discriminazione e dell’ingiustizia sociale, e delle grandi disuguaglianze economiche, da parte di istituzioni e cittadini. Dove ricercare le principali cause del cambiamento del senso comune?
Possiamo, in effetti, parlare di una crisi dell’uguaglianza non tanto per l’abnormità delle odierne disuguaglianze quanto per il fatto della loro rassegnata accettazione: a una consapevolezza sempre più intensa non è seguita, e non sembra seguire, alcuna mobilitazione significativa, come vi fosse una tacita acquiescenza anche rispetto alle loro conseguenze più allarmanti.
Le ragioni di questa sconcertante passività sono molteplici, ma tre mi sembrano le più importanti: la sedimentazione di un’ideologia che scambia le disuguaglianze generate dall’organizzazione sociale per differenze naturali che si manifestano diversamente secondo le attitudini, le capacità e l’impegno di ciascuno; l’incomprensione, o peggio la mistificazione, del rapporto tra uguaglianza e libertà, guardate erroneamente come valori tra loro contrapposti e inconciliabili; infine, la diffusione di un senso di impotenza generato da una politica che, sempre più asservita ai poteri del mercato, degrada a tecnocrazia e in quanto tale è avvertita dai cittadini come irriducibilmente lontana dalle proprie rivendicazioni.
Lei si è interrogato sulla riformabilità del capitalismo. A che tipo di conclusioni è arrivato? E’ possibile cambiare questo sistema economico per consentire alle persone di mettere a frutto le capabilities seniane, ovvero “la capacità che ciascuno ha di fare le cose alle quali, per un motivo o per un altro, assegna un valore”?
Tutte le istituzioni sociali, in quanto strutture da noi stessi prodotte, possono ovviamente essere cambiate, com’è altrettanto ovvio che possa mancare la volontà culturale, sociale e soprattutto politica per farlo, non essendovi intellettuali che concepiscano alternative, movimenti sociali che reclamino un cambiamento, forze politiche che si facciano carico delle loro rivendicazioni.
Oggi, l’ordine globale è fondato sulla competizione. È una grande disfida, tutta orientata ad attrarre capitali sempre più mobili e sfuggenti, che variamente comporta una competizione fiscale (potenzialmente distorsiva della concorrenza nel mercato), una corsa al surplus commerciale (prevedibilmente insostenibile per il pianeta) e una gara al ribasso nella tutela dei diritti del lavoro e nella difesa dell’ambiente (in una spietata “concorrenza tra ordinamenti”).
Di questo sistema capitalistico, dominato da una finanza non più vettore di investimenti produttivi bensì motore di sfrenati antagonismi regionali e internazionali, una riforma radicale appare non solo possibile ma anche necessaria. Alla “ragione” dell’imperante lex mercatoria – espressione niente più che del potere dei più forti – deve sostituirsi una rinnovata ragione giuridica in grado di imbrigliare i poteri selvaggi che dominano la società di mercato, riportando l’economia, e la sua dimensione finanziaria, sotto il controllo del diritto. Servono regole e controlli nel segno di un nuovo multilateralismo globale che tenda a un’armonizzazione dei singoli ordinamenti nazionali, innanzitutto in materia fiscale.
Solo così si potranno rilanciare politiche pre-distributive e re-distributive idonee ad assicurare a tutti le capabilities necessarie per il pieno sviluppo umano di ciascuno.
Il Forum si richiama in maniera chiara all’articolo 3 della Costituzione che sancisce non solo libertà e uguaglianza ma partecipazione dei lavoratori e responsabilità della Repubblica di rimuovere gli ostacoli alla libertà sostanziale dei cittadini. C’è chi crede che richiamarsi alla Costituzione sia ormai poco più che un esercizio di stile, eppure noi crediamo non sia così. Come riuscire ad affermare la validità di questi valori traducendoli in azioni concrete, ovvero nella pratica politica?
Quella espressa dall’articolo 3, secondo comma, della Costituzione italiana – là dove impone alla Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” – è una mirabile sintesi che invita a guardare libertà ed eguaglianza come beni indivisibili e solidali tra loro, uniti in un rapporto di complementarietà piuttosto che separati in una relazione oppositiva.
Riaffermarne la centralità non è un espediente retorico. Significa piuttosto ripensare una seria politica dell’eguaglianza ripartendo dal suo fondamentale luogo di origine: il progetto di società prefigurato dal testo costituzionale. È qui, infatti, che si trovano le coordinate ideologiche idonee a soppiantare la narrativa oggi dominante (spesso anche a sinistra) – che insiste sulla contrapposizione tra i principi di eguaglianza e libertà – sostituendovi l’ideale della libertà eguale, in cui essi, all’opposto, sono combinati in un rapporto di armonica sinergia. La libertà eguale – che è l’ideale fondante di ogni socialismo liberale – consiste nella redistribuzione della libertà, attraverso la garanzia dei diritti sociali, per assicurare a ciascuno reali opportunità di esercizio dei diritti di libertà egualmente distribuiti.
È alla realizzazione di questa forma di libertà (reale o sostanziale o, appunto, eguale) che dovrebbe orientarsi la pratica politica.
L’instabilità sembra la cifra di questo presente, a livello globale e nazionale. Quali sono le questioni più urgenti che dovrebbe affrontare la politica nel nostro paese?
L’ingiustizia nelle condizioni economiche e sociali caratterizza oggi sempre di più anche le ricche società dei paesi occidentali. L’Italia non fa eccezione. Anzi, è uno dei paesi in cui la disuguaglianza è più acuta, e in crescita costante, e dove una percentuale significativa della popolazione è a rischio di esclusione sociale o perfino in povertà “assoluta”. Bisogna allora tornare ad affrontare la questione sociale: non però con un’iniziativa dal fiato corto che ha il respiro dei tempi delle campagne elettorali, ma attraverso una radicale politica dell’uguaglianza in grado di guardare alla libertà eguale di ciascuno come a un obiettivo concretamente realizzabile.
Una strada per tornare a prendere sul serio la questione sociale potrebbe essere quella di riappropriarsi del lessico della sicurezza. Oggi – ben più che in passato – il vocabolario della sicurezza è prestato soprattutto alle politiche del controllo sociale, malgrado anche in Italia si assista da anni a un costante decremento dei reati contro la persona e il patrimonio.
Quasi del tutto assente dall’orizzonte della politica è invece la sicurezza sociale. Ma è proprio questa la sicurezza che oggi manca e che, dunque, appare urgente reclamare, per riaffermare la necessità di garantire a tutti una protezione sociale sufficiente ad assicurare a ciascuno reali opportunità di realizzare i propri piani di vita.