Contributo di Alfio Mastropaolo*
Le disuguaglianze sono un rompicapo. Perché il mondo, quello moderno soprattutto, è fatto tanto di disuguaglianze quanto di differenze (o pluralismo). Non c’è differenza senza disuguaglianza e non c’è disuguaglianza senza differenza. Posto che una società senza differenze e senza disuguaglianze è inimmaginabile, vi sono disuguaglianze che lacerano e altre che ricompongono. Vi sono disuguaglianze che sono percepite come giuste e altre come ingiuste. Dove sta la linea di confine tra una disuguaglianza potenziale e una esperita e vissuta come tale? E come trattare disuguaglianze e differenze?
La storia qualcosa suggerisce. Per molto tempo le diversità e disuguaglianze salienti sono state quelle socioeconomiche. Torna alla memoria un celebre sociologo, viene da dire dell’antichità, Seymour Martin Lipset, che nel 1960 aveva sostenuto che la stabilità democratica dipendesse dai livelli di reddito e dall’uguaglianza. Se l’economia funziona, se produce benefici sufficienti da essere distribuiti dal mercato, o redistribuiti dallo Stato, le disuguaglianze sono governate tramite la loro attenuazione e si riducono i rischi di conflitti devastanti.
Rappresentare le disuguaglianze
Possiamo precisare il medesimo racconto. Per divenire politicamente, e socialmente, rilevanti, le disuguaglianze vanno messe a fuoco e rappresentate. Vediamo com’è successo con le disuguaglianze suscitate dall’industrializzazione. Sono sorte imprese politiche (cioè partiti e movimenti) che le hanno rappresentate, che si sono proposti quali portavoce delle loro vittime, che hanno insegnato a queste ultime a riconoscere non solo l’ingiustizia della propria condizione, ma il suo carattere condiviso (costituivano una classe), e hanno avanzato in loro nome pretese di riequilibrio. Va da sé che quando tali pretese sono state avanzate in maniera molto perentoria, i ceti abbienti non hanno gradito. Quasi sempre sono si sono comunque sviluppate imprese di rappresentanza concorrenti: la mobilitazione delle classi medie.
Negli anni ’20-’30 la mobilitazione delle classi medie non fu pacifica. In alcuni casi il regime rappresentativo fu rovesciato con la violenza, confermando le disuguaglianze socioeconomiche. O non fu rovesciato, ma furono applicate robuste dosi di coercizione. In Italia è andata nel primo modo. In Inghilterra nel secondo. In Scandinavia, dove le possibilità di repressione erano più modeste, si adottò invece in anticipo l’idea di una conciliazione, conducendo politiche ridistributive che attenuavano le disuguaglianze. Nel dopoguerra, con numerose varianti, dopo i disastri prodotti dalla violenza, questa terza tecnica di governo si è estesa a tutto l’occidente, anche perché le condizioni economiche lo consentivano e perché si era scoperto come l’uguaglianza fosse un formidabile volano per la crescita.
In realtà, come sempre succede, questa tecnica di trattamento delle disuguaglianze occultava o sfruttava altre diversità, disuguaglianze e ingiustizie. Per esempio quelle di genere, di età e, ancor di più, quelle coi paesi produttori di materie prime. A lungo andare, visto che nessuno preveniva, qualcuno le ha rappresentate e portate alla luce. Con una differenza sostanziale. Limitiamoci alle disuguaglianze indigene. Le disuguaglianze di seconda generazione non sono state rappresentate dando luogo a corpi collettivi stabili nel tempo. Non c’è riuscita nemmeno quella peculiare mobilitazione intermedia che in America si è fondata sul colore della pelle, che si è affievolita una volta conseguiti alcuni, senza dubbio importanti, benefici giuridici. Per contro, si sono sviluppate, forme di rappresentanza che solo episodicamente – il tempo di un’azione di proteste – ricongiungevano le vittime tra loro.
Per la disuguaglianza giovanile la differenza si spiega facilmente. La gioventù passa in fretta. Per la disuguaglianza tra i sessi è stata probabilmente decisiva l’incomponibile eterogeneità, economica e culturale anzitutto, dell’universo femminile. Ma è possibile anche che le disuguaglianze di genere siano entrate, e siano state messe, in rotta di collisione con le disuguaglianze socioeconomiche. È la spiegazione avanzata da Nancy Fraser, che ha contrapposto la politica di “classe” (universalista) a quella dell’“identità” (differenzialista). Fraser accusa il progressive liberalism di Bill Clinton e i suoi tanti epigoni: qualcuno ha favorito lo scontro. L’ipotesi non è infondata. È possibile dunque che, senza ricorrere alle maniere forti come negli anni ’20 e ’30, le disuguaglianze di seconda generazione siano state adoperate contro quelle di prima generazione, proprio per disunire i corpi collettivi che attorno a queste ultime si erano costituiti e le cui pretese, evidentemente, sono apparse a lungo andare insostenibili.
Contro-rappresentazioni ed equilibri incerti
La manovra di disarticolazione delle disuguaglianze di prima generazione ha seguito anche altri percorsi molto più tortuosi e più incisivi. Si è servita della tecnologia (postfordismo). Ha prodotto contro-rappresentazioni potentissime e efficacissime, volte a naturalizzare le disuguaglianze socioeconomiche, rendendole giuste anziché ingiuste, ha consacrato il primato e l’autonomia dell’individuo. Si sono in vario modo scompaginati i partiti e emarginati i sindacati che rappresentavano la disuguaglianza. Cosicché i partiti giocano oggi le loro partite elettorali prevalentemente sulla rappresentanza “occasionale”, sull’appeal dei candidati, sull’evento drammatico, sulle emozioni del momento.
Gli equilibri che ne sono scaturiti sono oltremodo incerti. Cosa succede infatti quando ampie fasce sociali, che hanno vissuto un’esperienza di rappresentanza inclusiva come quella dei partiti di classe (classe lavoratrice o classe media), o comunque ne hanno notizia o memoria, condividono un’esperienza di abbandono? O, come voi dite, vivono una disuguaglianza di “riconoscimento”? Tornano allo stato primitivo, quello che precedeva l’azione della rappresentanza? O si configura una condizione di «dis-rappresentanza», in cui sono rappresentati (la letteratura e il cinema sono molto generosi in merito), e si rappresentano, in negativo, e cioè vivono la loro condizione in termini d’ingiustizia, spossessamento, isolamento? Tutto lascia pensare che in parte escano di scena, cioè rientrino nel privato, ove si difendono come possono e elettoralmente si astengano, magari per non contraddire la loro memoria, e una parte si difenda offrendosi quali scarti riciclabili per nuove imprese di rappresentanza, pronte a elaborare il loro risentimento e la loro condizione. Senza ricostituire corpi collettivi, ma attraendo occasionalmente il loro voto.
Ricongiungere le disuguaglianze per contrastarle
La retorica della società liquida esagera, perché comunque maturano nuove dinamiche associative, le quali sono però a corto raggio, e comunque promuovono una certa mole d’isolamento. Chi è isolato e risentito è vulnerabile. Farsi coraggio da soli nelle incertezze dell’esistenza è ben più faticoso di quando si ha l’opportunità di condividerle, di sopportarle e contrastarle insieme con altri. Così ci si affida a forze politiche che disseminano tossine magari compatibili con l’ordine proprietario, ma incompatibili con un’accettabile convivenza democratica.
C’è da temere esiti autoritari? Probabilmente no. Le società contemporanee sono troppo pluraliste e differenziate per consentirli. Ma danni gravi si possono comunque perpetrare, tanto alla vita associata, quanto allo stesso ordine proprietario.
Quanto ancora ai modi di pensare degli individui: si può essere intolleranti e forsanche violenti senza essere autoritari. Esemplare è il pasticcio in cui si è cacciato il Regno Unito. Nel Brexit, che è figlio della mobilitazione del risentimento e della disuguaglianza da riconoscimento, nulla c’è di socialmente eversivo, ma c’è molto che crea imbarazzo all’ordine proprietario. Il governo May sta da ultimo provando a uscire dal cul di sacco creando condizioni di emergenza e bellicosità, verso l’esterno, alquanto pericolose. L’amministrazione Trump segue uno schema analogo, e addirittura lo amplifica, individuando senza posa nuovi nemici interni e esterni.
Dove sta l’alternativa? Ricongiungere le disuguaglianze di riconoscimento e le disuguaglianze socioeconomiche e altre disuguaglianze ancora (le condizioni delle fasce deboli della popolazione femminile sono molto gravi) e adoperarsi per contrastarle congiuntamente. Conviene ormai pure all’ordine proprietario. Ovviamente, vanno scoperte parole e tecniche appropriate. Diamoci da fare.
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